Addio a Parlato, il comunista eretico

Fondatore del «Manifesto», venne espulso dal Pci e chiese soldi a Craxi

Massimiliano Scafi

Roma Fumando e dissentendo, sorridendo e polemizzando fino alla fine, a 86 anni se ne è andato pure l'ultimo comunista eretico. Coerente e contraddittorio, Valentino Parlato era uno che ha cambiato idea tante volte. Ha lasciato il Pci, ha fondato Il Manifesto, l'ha diretto per quattro volte, ha trovato i soldi quando il giornale era in crisi, però è anche l'uomo che ha accettato un prestito dal Psi di Craxi, che ha sostenuto il governo Dini, che stimava Enrico Cuccia per il suo ruolo di garante negli equilibri politico-finanziari, che teneva sulla scrivania del salotto una foto con il cardinale Silvestrini e che l'anno scorso a Roma ha votato Virginia Raggi. «Ero talmente indignato con il Pd da tradire la sinistra». Forse poi ci ha ripensato, visto che si è iscritto a Si.

E perfino l'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca non gli dispiaceva del tutto. Anzi, in un mondo in cui vedeva «spegnersi la speranza dei più umili», riteneva importante muovere le acque per «riattivare il conflitto sociale». Insomma, un estremista equilibrato, oscillante però fedele ai principi. «Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando - scriveva il 9 aprile scorso - dobbiamo sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà».

Parlato era nato a Tripoli, dove il padre lavorava come funzionario del fisco, ma dalla Libia venne espulso dal Protettorato inglese nel '51, quand'era ancora studente di legge, invece dell'avvocato si mise a fare il funzionario del Pci. Collaborò con Guido Amendola, guidò la federazione di Agrigento, entrò a Rinascita, diretta allora da Giancarlo Pajetta, come giornalista economico. Poi, con Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Lucio Magri e Luigi Pintor, fondò Il Manifesto, rivista comunista ma molto irriverente che cominciò a criticare il «centralismo democratico» di via delle Botteghe Oscure. Nel 1969, dopo l'invasione sovietica in Cecoslovacchia e dopo la pubblicazione di un editoriale «Praga è sola», la rottura definitiva, il processo e la radiazione del gruppo dal partito.

Nel 1971 Il Manifesto diventò quotidiano. Stipendi all'osso, una forte connotazione politica e quei famosi titoli fulminanti, post-moderni, terribilmente efficaci, che diventarono presto il suo segno distintivo. Tra mille difficoltà il giornale al quale ha legato la sua storia è sopravvissuto. Le foto delle riunioni di redazione, con Valentino Parlato sempre in primo piano con sigaretta tra le dita, danno il senso di quel giornalismo militante ormai fuori tempo, con un pizzico di romanticismo.

Due mogli, Clara Valenzano e Delfina Bonada, tre figli, uno dei quali, Matteo, ha girato un documentario sul padre, Vita e avventure del Signor di Bric à Brac. Due autobiografie, La Rivoluzione non russa e Se trentacinque anni vi sembrano pochi. Ottanta sigarette al giorno, anche queste raccontate in un libro, Segnali di fumo. Tante battaglie, spesso perse.

Ora tutta la sinistra, da Renzi a Fratoianni passando per Mattarella, piange la scomparsa della «una voce critica di un intellettuale di razza». Valentino, ricorda la Castellina, «era un tipo diffidente, non preda a facili entusiasmi, a cui piaceva annusare le novità». Che uomo era? «Molto socievole e semplice, non indulgente, però».

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