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Addio al reintegro: vittoria per i liberali

La decisione della Consulta va allora accolta con soddisfazione per più ragioni

Addio al reintegro: vittoria per i liberali

La bocciatura da parte della Corte costituzionale del referendum sull'articolo 18 poggia su argomenti tecnico-giuridici che saranno resi noti solo nelle prossime settimane. Certamente è importante che ieri, con tale decisione, si sia posto fine una volta per tutte alla pretesa di reintrodurre la cosiddetta «tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo». Il tentativo della Cgil di scardinare quel poco di liberale contenuto nel Jobs Act si è dunque rilevato infruttuoso: a tutto beneficio dei lavoratori stessi, dato che un'economia ingabbiata non può offrire posti di lavoro, prospettive, opportunità. La decisione della Consulta va allora accolta con soddisfazione per più ragioni. Innanzi tutto, ammettendo la possibilità per l'impresa di licenziare sebbene entro un quadro giuridico ancora molto contorto questa sconfitta del progetto di Susanna Camusso permette di riconoscere ancora un suo ruolo al contratto di lavoro, così che un posto remunerato non sia un diritto unilaterale (una pretesa assoluta del dipendente), ma invece il risultato della mutua soddisfazione di chi offre un servizio e di chi lo acquista. Nella società contemporanea, infatti, è necessario uscire da vecchie logiche classiste, figlie del matrimonio tra conservatorismo paternalistico e progressismo ridistributivo, per comprendere che ognuno si presenta al prossimo come fornitore di un lavoro che può essere apprezzato oppure no: esattamente come fanno i negozianti, gli artigiani, i liberi professionisti e via dicendo. E come un fruttivendolo non può costringere che torni a rivolgersi a lui un ex cliente che preferisce andare da altri, analogamente dobbiamo accettare che chi oggi ci dà un lavoro possa decidere, in un contesto che cambia di continuo, di non avere più bisogno di noi quando le cose sono mutate. Il reintegro obbligatorio, quindi, non soltanto difende e protegge i «lavativi» (quanti non rispettano gli impegni presi e cercano di trarre beneficio dalla posizione acquisita), ma soprattutto impedisce il libero sviluppo di un'economia che deve adattarsi incessantemente alle esigenze dei consumatori, i quali hanno il pieno diritto di orientare la propria vita secondo i loro obiettivi, sogni, desideri. Come ha ricordato nei suoi scritti uno dei massimi scienziati sociali del Novecento, Ludwig von Mises, all'interno di un'economia di mercato chi decide il destino dei vari progetti imprenditoriali è il consumatore: e per questo dobbiamo imparare a capire, ad esempio, che anche la crisi del settore automobilistico americano (con tutte le conseguenze occupazionali che ha comportato) è primariamente il risultato di innumerevoli scelte di individui liberi, che oggi comprano meno General Motors di quanto non facessero in passato. Lo si è sentito ripetere tante volte: in un'economia in cui non è possibile licenziare, diventa anche molto difficile (e rischioso) assumere. Ed è così: nelle società più flessibili, in effetti, può capitare di perdere il lavoro, ma in genere per periodi brevi. Vi sono talune aziende che licenziano, ma anche e soprattutto altre che assumono. Questo è un punto importante, ma lo è in particolare in considerazione del fatto che un'economia che assicuri a chiunque il posto in stile Checco Zalone non può aiutare l'evoluzione di una società che vede emergere tecnologie nuove e forme culturali inedite, e che naturalmente è chiamata ad assecondare tutto ciò. In Italia abbiamo una grave carenza di libertà ed enormi problemi occupazionali, specie al Sud.

Per tutte queste ragioni abbiamo bisogno di più mercato, e non di meno.

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