Coronavirus

Addio alla star dell'architettura. Il virus fa il primo morto illustre

Colpito da polmonite era ricoverato in clinica a Milano. Aveva 92 anni. Tra le sue opere, lo Zen e l'Arcimboldi

Addio alla star dell'architettura. Il virus fa il primo morto illustre

La prima vittima illustre da coronavirus è purtroppo italiana. Mentre le condizioni di Luis Sepulveda, ricoverato a Oviedo, restano gravi ma stazionare, non ce l'ha fatta Vittorio Gregotti a superare i postumi di una polmonite da coronavirus. È morto ieri a Milano all'età di 92 anni.

Piemontese che guardava la Lombardia, Gregotti era nato a Novara nel 1927, la stessa città di Alessandro Antonelli e di Enzo Mari. Ha firmato e concluso ben 1.600 progetti, un record. La sua è stata la storia di uno dei più importanti architetti italiani del '900, dallo stile inconfondibile, di sicuro livello internazionale, ma che ha diviso gli esperti tra estimatori e critici, talora pungenti.

È stato certamente il primo architetto poliedrico e multidisciplinare, capace di muoversi a 360 gradi: saggista, storico, docente da una parte, progettista e costruttore dall'altra, fantasioso nella scrittura, teorico di una scala modulare e ripetibile con pochissime variazioni. Proprio per questo le sue opere sono immediatamente riconoscibili, perché ripetono costantemente gli stessi elementi, con poca attenzione al dettaglio a vantaggio del rigore compositivo. Un'architettura che, insomma, non scalda il cuore.

Una carriera lunghissima, tra tante luci e qualche ombra, cominciata con l'esperienza parigina nel 1947, quindi la laurea al Politecnico di Milano nel '52. Unico architetto a partecipare all'avventura letteraria del Gruppo '63, nel '74 fonda la Gregotti Associati International. Dal '74 al '76 è anche direttore della Biennale di Venezia, quando ancora l'architettura era una costola delle arti visive. Fu anche direttore della rivista Casabella tra il 1982 e il 1996, e autore di innumerevoli saggi tra i quali vale la pena ricordare Recinto di fabbrica (1996), memoir in cui racconta gli anni della formazione nella fabbrica paterna, l'educazione piuttosto rigida e cadenzata ai tempi del lavoro che lo ha influenzato non poco. Ne La città visibile (1991) esplicita la sua idea di urbanistica: per la cultura della pianificazione urbana e territoriale proporre un nuovo stato di equilibrio, basato sul «riordino e chiarezza, che sono gli strumenti più importanti dell'architettura».

Considerato l'architetto dell'intellighenzia milanese, assai ben voluto nei salotti della sinistra, Gregotti ha lasciato segni importanti nella sua città: la riqualificazione della Bicocca, cui ha lavorato vent'anni dal 1985 al 2005, e il Teatro Arcimboldi (1997). Ha costruito stadi - Montjuic, Barcellona (1992), Agadir in Marocco (1990), Ferraris a Genova per Italia 90 - teatri, centri culturali e musei (Belem a Lisbona, Aix-en-Provence, l'ampliamento dell'Accademia Carrara a Bergamo), università in Calabria, a Firenze e Palermo, un'intera città in Cina, Pujiang, per 100mila abitanti presentata a Expo 2010, e ha firmato il nuovo piano regolatore di Torino, insieme ad Augusto Cagnardi, che prevedeva la riorganizzazione urbanistica nella cosiddette «spine».

L'episodio certo più controverso resta il quartiere Zen di Palermo (1969), che avrebbe dovuto rappresentare l'avamposto moderno dell'edilizia popolare e invece si trasformò in un concentrato di delinquenza e microcriminalità. Secondo Gregotti a causa delle infiltrazioni mafiose che gli impedirono di completare il progetto, ma forse anche per l'insistenza ideologica nel proporre spazi così compressi basati sull'insistenza del modulo, stesso sistema adottato nel quartiere Cannaregio a Venezia, con ben altra socialità. Nonostante la firma prestigiosa, lo Zen resta una delle vergogne dell'edilizia italiana, di cui è stato più volte proposto l'abbattimento, insieme a Corviale, il simbolo del fallimento di un'utopia che la realtà si è incaricata poi di rovesciare completamente.

In effetti Gregotti è stato il fautore più convinto della maniera modernista in architettura, di un razionalismo di matrice nordica, di una semplicità austera, di una ripetizione bidimensionale poco attenta alla scala umana e alle sue differenze. Stile inconfondibile ma appunto poco coinvolgente. Ecco perché non è stato amato da tutti. Il critico Luigi Prestinenza Puglisi ha spesso parlato di Gregotti come di un architetto poco empatico e anaffettivo, «un perfetto esemplare di organismo a sangue freddo come accadeva agli intellettuali di sinistra di allora, sempre con il freno a mano tirato e un occhio, anzi due, al realismo, la parola magica che metteva insieme i sovietici, i comunisti del PCI e quelli di scuola francese». Né piaceva a Bruno Zevi, che lo rimproverava di essere troppo asciugato e per nulla organico, fedele interprete della lezione di Le Corbusier. E molto diverso anche da Renzo Piano, di cui per contro non amava la mescolanza di tecnologia e artigianato.

Eppure proprio con Piano ha lungo diviso il primato dell'architetto italiano più noto all'estero.

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