Non è vero che il Jobs Act di Renzi stia generando nuova occupazione. L'euforia che si era manifestata a causa di 80mila nuovi contratti a tempo indeterminato, nel bimestre gennaio-febbraio è durata poco. Infatti a febbraio gli occupati sono diminuiti di 44mila, rispetto a gennaio, nonostante i 40mila nuovi contratti a tempo indeterminato registrati in questo mese. I 40mila occupati in più di gennaio sono stati annullati dall'equivalente calo degli occupati di febbraio. E la disoccupazione è tornata al livello del 12,7% di dicembre, quella giovanile al 42,6%. Il nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato fruisce di un generoso esonero dai contributi (...)
(...) sociali per il primo biennio e quindi conviene trasformare contratti di lavoro che non fruiscono di questo beneficio in contratti che vi danno diritto. In questo modo non si crea nuova occupazione, ma solo un costo fiscale dovuto all'esonero, coperto con altre misure a carico dei contribuenti. C'è un altro dato negativo, sul fronte occupazione. Il tasso di inattività, cioè la percentuale di persone fra i 15 e 64 anni di età che non lavorano e non sono in cerca di un lavoro, in febbraio è aumentato dello 0,1% rispetto al gennaio e si mantiene sul 35%, cifra molto elevata. Che non ci sia un effetto positivo della politica economica renziana lo si desume anche dal fatto che in Italia a marzo c'è ancora la deflazione. L'indice dei prezzi al consumo è ancora a -0,1%, nonostante l'espansione monetaria attuata dalla Bce che ha indebolito l'euro favorendo l'export e rincarando i beni importati. Questo rincaro è compensato dalla persistente debolezza dei prezzi al consumo, dovuta alla scarsa ripresa della domanda interna. È probabile che essa nei mesi prossimo migliori un po', dato lo stimolo generato dalla Bce con la sua manovra per risvegliare l'economia europea. Altrove, ciò accade in ampia misura: ad esempio in Spagna, secondo la Banca centrale spagnola, nel 2015, il Pil crescerà del 2,8%. In Italia il Pil in questo primo trimestre è salito solo dello 0,1%. Sarà molto difficile registrare, nel complesso dei quattro trimestri, un crescita vicina all'1%, come prevedono Confindustria e altri centri di previsione, che cercano di generare fiducia. Molti domandano come si spiega il contrasto fra i dati sull'elevata disoccupazione, la persistenza della deflazione e la bassissima crescita del Pil nei primi tre mesi del 2015 che abbiamo visto e quelli di segno opposto sull'aumento della fiducia delle imprese e dalle famiglie italiane nello stesso periodo. In effetti, l'indice del clima di fiducia dei consumatori, con base 2010 = 100, aumenta in marzo a 110,9 da 107,7. L'indice composito del clima di fiducia delle imprese sale a 103,0 contro il 97,5 di febbraio. Ma la fiducia dei consumatori viene misurata mettendo insieme la valutazione che esprimono sulla propria situazione con quella sull'andamento dell'economia. Ora la valutazione della situazione personale passa da 98 a 99,7: che è sempre minore del livello del 2010, pari 100. La valutazione da parte delle famiglie della congiuntura economica nazionale e internazionale, invece, balza in marzo al 144,8% dal 138,1, Ma essa ha come base il 2010, in cui la prospettiva era di peggioramento della crisi. La tempesta è passata, si intravede un futuro più sereno, ma il recupero della situazione personale non è ancora completo. Quanto alle imprese, il miglioramento sul 2010, come si nota, è molto piccolo. Esso, comunque, dipende dal fatto che tagliando il personale e le spese, molte imprese sono tornate in utile o almeno non hanno più perdite rilevanti. Ma ciò a spese dell'occupazione e del volume del fatturato.
Insomma, ci sono spiragli di ripresa, dovuti alla Bce e agli sforzi delle famiglie e delle imprese. Ma l'euforia per Jobs Act è fuori posto. Come lo è stata quella per i presunti effetti positivi sul Pil degli 80 euro in busta paga, anche essi finanziati da imposte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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