«Bisogna togliere il paese dalle mani dei soliti noti». Matteo Renzi torna all'attacco dei «salotti buoni», quelli dove si va a «concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito».
In un'intervista a Tempi , il settimanale di Cl (intervista «riparatoria», suggerisce qualche renziano, dopo il gran rifiuto del premier di partecipare al Meeting di Rimini, tanto caro ai suoi predecessori), Renzi invoca la necessità di una «rivoluzione culturale» che faccia entrare «aria nuova» nelle asfittiche stanze del vecchio establishment . E subito parte il gioco di società del «con chi ce l'ha». Chiedere lumi nei dintorni di Palazzo Chigi non porta molto lontano: «Poteri forti o presunti tali, terrazze romane che rifugge, salotti nei quali non mette piede...». Non è difficile individuare qualche bersaglio meno vago dietro le metafore: dal patto di sindacato del Corriere della Sera , giornale che simpatizza poco per il premier e non lo nasconde; alla Confindustria di Giorgio Squinzi (lui e la segretaria della Cgil Susanna Camusso vennero accoppiati poco affettuosamente dal premier come «la strana coppia che non vuole le riforme») e del Sole24Ore , che dal decreto Irpef sugli 80 euro in poi non ha perso occasione per fare le bucce alla Renzinomics: «Questo Paese non ha bisogno di un uomo solo capitato da Marte, anzi, da Campo di Marte», fu l'esordio della dichiarazione di guerra firmata dal direttore Roberto Napolitano ad aprile e da allora proseguita, sia pur a fasi alterne.
Un dirigente Pd vicino al premier allarga la cerchia agli alti mandarini della burocrazia, abituati a fare il bello e cattivo tempo nei ministeri e nella formazione delle leggi: «I consiglieri di Stato alla Garofoli, gli alti dirigenti alla Monorchio, i tromboni delle relazioni istituzionali di alcune aziende di Stato. E gli editorialisti alla Ostellino». Roberto Garofoli era il segretario alla Presidenza del Consiglio con Enrico Letta, prontamente estromesso da Renzi ma tornato in ballo come capo gabinetto al Tesoro. Andrea Monorchio resta invece il simbolo di quella Ragioneria dello Stato, da lui guidata per più di un decennio, che da spesso dato filo da torcere ai governi. Vedi per ultimo il caso dei «quota 96» nel decreto PA, affondato dalla potente tecno-struttura del Tesoro con un colpo basso che a Palazzo Chigi non hanno perdonato. Tutti incarnano quella casta dei grand commis scesi silenziosamente sul piede di guerra contro un esecutivo che si propone apertamente - sacrilegio - di tagliarne con l'accetta privilegi e i spazi di potere (le norme del decreto PA sui dirigenti in pensione e sui collocamenti fuori ruolo rischiano di far strage di mandarini).
Non è certo la prima volta che Renzi parte a testa bassa contro i «salotti buoni», anzi ne ha fatto fin dagli esordi un leit motiv della sua «rottamazione»: «C'è un intero establishment che ha fallito e nessuno ha il coraggio di dirlo», attaccò aprendo le primarie del 2013. «Il sistema capitalistico italiano ha responsabilità atroci. Inutile lamentarsi solo della politica», ribadì poco dopo in un'intervista al Corriere della Sera .
La geografia però è cambiata più volte, nel frattempo: se Marchionne, autore di una celebre invettiva contro l'allora sindaco di Firenze («Si crede Obama ma è solo il sindaco di una piccola e povera città») ora plaude al premier, il suo ex fan Diego Della Valle attacca il premier e le sue riforme «fatte al bar». E l'abile tattica renziana del divide et impera (strizzare l'occhio a Landini contro la Camusso, nominare ministro Federica Guidi in barba a Squinzi) ha spesso dato buoni frutti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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