
Due miliardi e settecento milioni di interventi e una corsa per incerottare il territorio ferito. Michele de Pascale, presidente della Regione, mette in fila una sequenza di numeri per raccontare la nuova Emilia Romagna che costruisce dighe e ripara argini, per mettere fine al dramma delle alluvioni. Due anni fa, il 16 maggio 2023, diciassette persone morirono e i danni provocati dall'acqua furono calcolati in 8,5 miliardi.
Un disastro che spiega la rincorsa di oggi. Ma siamo sicuri che si stia seguendo la strada giusta? Un fatto è certo, in quindici anni, dal 2010 al 2025 il Veneto di Luca Zaia, che ha grossomodo gli stessi abitanti, ha compiuto un balzo spettacolare e, incrociando le dita, ha voltato pagina.
Non è un problema di bandierine, perché quel che conta è la cura e la manutenzione del territorio. Ma qualcosa non quadra. Il mantra ripetuto dai governatori del centrosinistra è sempre lo stesso: la colpa è del cambiamento climatico e poi naturalmente del Governo, o dei governi che da sempre lesinano i fondi. Ma il modello Veneto suggerisce un'altra lettura che trova conforto nelle cifre distribuite dall'opposizione di centrodestra.
Numeri che sono un atto d'accusa: su 565 opere programmate fra il 1999 e il 2022 ben 161 sono incompiute, così come non sono state terminate 14 casse di espansione sulle 25 progettate. E ciò che arriva finalmente alla conclusione è fuori tempo massimo: 15 anni di media, il tempo in cui il vicino Veneto, più pragmatico e meno legato ai pregiudizi, si è messo l'acqua sotto i piedi.
«Non c'è una visione d'insieme - spiega Elena Ugolini che a novembre scorso aveva sfidato de Pascale per la presidenza e oggi guida il centrodestra -. Non solo: molti interventi sono stati fatti male e oggi devono essere rifatti con duplicazioni di energie e ulteriori rinvii». L'ex sindaco di Parma Pietro Vignali, capogruppo di FI, è ancora più tranchant: «Hanno ideologizzato i fiumi. Hanno messo avanti a tutto la difesa ossessiva delle specie animali a danno dell'uomo, non hanno contrastato lo spopolamento e ora i risultati sono purtroppo sotto gli occhi di tutti».
Più che di alluvione, si deve parlare di una serie di inondazioni senza fine.
E il metronomo di numerose opere è davvero inaccettabile. La diga di Vetto, in provincia di Reggio Emilia, è un miraggio dal 1981, 44 anni fa, e diventa la foto di un sistema che non funziona. «Eppure - sottolinea Marta Evangelisti, capogruppo di FdI in Regione - avrebbe sulla carta due compiti fondamentali: regolare i flussi degli affluenti dell'Enza e dare acqua alla popolazione nei momenti di siccità». Che purtroppo sono speculari alle spallate di una natura imprevedibile, ma anche abbandonata a se stessa.
E poi c'è la più grande cassa di espansione, a San Cesario sul Panaro, nel Modenese: l'hanno realizzata nell'85, nessuno l'ha mai collaudata. E le ambizioni sprofondano nel fango, visto troppe volte in questi anni.
E un geologo di fama come Claudio Miccoli lancia l'allarme: «Mancano gli studi sulle tane degli animali, causa dell'indebolimento e poi della rottura degli argini». Lacrime sacrosante, dunque. Ma in qualche caso lacrime di coccodrillo. Perché i veti, i no e il politically correct hanno fatto quasi più danni dell'acqua.
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