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Altre mine sul governo: dalla legge elettorale al referendum anti casta

Attesa anche per la sentenza della Consulta: l'esecutivo si prepara a un gennaio bollente

Altre mine sul governo: dalla legge elettorale al referendum anti casta

Bianca, tre giorni di vita, la prima nata del 2020, accoglie Giuseppe Conte con un blando, perplesso vagito. Il premier invece sorride, saluta mamma e ostetrici, si concede ai fotografi, fa il disinvolto. Ma in realtà è preoccupato. «Ci aspetta un anno di intenso lavoro per fare in modo che le aspettative dei nostri giovani non siano tradite», dice rilanciando le parole del capo dello Stato: e mettersi al riparo del Quirinale, in attesa della verifica, non è una cattiva idea, visti gli ostacoli e le tagliole che aspettano il governo. Sarà dura fin dall'inizio, da subito. E oltre alle solite grane - dalle Regionali alle liti interne nella maggioranza, dalle crisi industriali alla giustizia, fino al caso Gregoretti - c'è una trappola nascosta, una doppia variante che potrebbe terremotare la tenuta dell'esecutivo: la scadenza, il 12 gennaio, per la presentazione delle firme per il referendum sul taglio dei parlamentari e la sentenza della Consulta, tre giorni dopo, sulla modifica della legge elettorale in un maggioritario puro. All'inglese.

Il gennaio bollente di Giuseppe Conte si apre quindi con questa duplice incognita referendaria, un combinato disposto molto tecnico e burocratico che sicuramente non scalderà i cuori della gente, ma che può rimescolare il quadro politico. Il 15 i giudici costituzionali dovranno stabilire se la richiesta della Lega, che vuole cancellare la quota proporzionale dell'attuale Rosatellum e trasformare il nostro in un sistema di solo collegi, è ammissibile e votabile dai cittadini. E la questione si intreccia con la riforma elettorale prevista dal patto di governo ma ancora alla casella zero. La commissione Affari costituzionali della Camera dovrebbe «incardinarla» già mercoledì 8, peccato che la maggioranza sia lontana da un accordo. Punto di scontro sembra la quota di sbarramento. Il tre, il quattro, il cinque per cento? I piccoli dovranno allearsi o correre da soli? Il sistema spagnolo piace?

E tre giorni prima si saprà se gli italiani saranno chiamati o no a confermare il taglio di deputati e senatori, ridotti da quasi mille a seicento. Nei giorni scorsi i promotori hanno raggiunto il numero di firme minime per il referendum, ultimo a siglare l'azzurro Simone Baldelli. Diversi parlamentari, si dice, sarebbero però intenzionati a ritirarla. Sarà in ogni caso un passaggio cruciale per Palazzo Chigi. Da un lato la consultazione popolare, programmata per la primavera inoltrata, dovrebbe allungare la vita del governo. Dall'altra qualcuno potrebbe provocare una crisi per evitare la sforbiciata ai propri gruppi. Ma quanto durerebbe una legislatura nata con le vecchie regole? E Sergio Mattarella non scioglierebbe subito delle Camere delegittimate dal referendum?

Poi, ci sono i guai quotidiani, gli scontri interni ormai di ordinaria amministrazione. La prescrizione ad esempio, che vede grillini da un lato e Pd e renziani dall'altro, pronti al braccio di ferro finale: il sette ci sarà un vertice di maggioranza. Il decreto mille proroghe, approvato «salvo intese» e tutto da definire. La revisione dei decreti sicurezza secondo i rilievi del Colle, annunciata e non realizzata. Le grandi crisi industriali: Ilva, autostrade, Alitalia, Banca Popolare di Bari. Il voto sull'autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per la nave Gregoretti.

Come se non bastasse, c'è pure il primo partito della coalizione, 5s, che sta perdendo pezzi. E a fine gennaio, le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria: riuscirà Conte a cavarsela?

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