Il mercato ha vinto la fame e batterà anche gli sprechi

C'è chi accusa il capitalismo per la sua cattiva gestione del cibo. Ma la distruzione dei generi alimentari avviene soprattutto nei Paesi arretrati o livello domestico

Il mercato ha vinto la fame e batterà anche gli sprechi

Nelle scorse settimane la nuova retorica anti-sprechi ha trovato una prima celebrazione nelle parole del presidente Sergio Mattarella, che all'Expo di Milano ha parlato del cibo non utilizzato e che finisce nella spazzatura come di «un insulto alla società, al bene comune, all'economia del nostro come di ogni altro Paese». E ora il governo stesso, su iniziativa del ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, è sceso in campo con un progetto denominato «Spreco zero» che si muove sulla stessa lunghezza d'onda. Complice l'Expo, siamo insomma sommersi da prediche che si muovono con l'obiettivo di rafforzare quel civismo statalista che mette assieme mito della legalità (quale essa sia), ecologismo, multiculturalismo, egualitarismo e ora, appunto, anche questa etica del rispetto delle risorse alimentari. E in tale quadro non è sorprendente che si tenda a processare in primo luogo il comportamento delle aziende, mentre allo Stato sia demandato il compito di correggere e porre rimedio.

Nessuno nega che sia da auspicare un migliore utilizzo delle risorse, comprese quelle alimentari. I mezzi che si vogliono adottare per raggiungere tale obiettivo, però, non sono di poco conto. In questo senso colpisce che molti discorsi si muovano per moltiplicare regole, controlli, obblighi e imposizioni, ignorando come ogni riflessione contro la scarsità e sul migliore utilizzo dei beni debba prendere sul serio la tesi che questi risultati li si possa raggiungere più facilmente tutelando la proprietà privata e il libero scambio.

Invece sembra proprio fare scuola la Francia, dove i principi della libertà individuale e della proprietà sono stati sacrificati sull'altare del nuovo conformismo con la recente introduzione del «reato di spreco»: una normativa che sottende una visione collettivistica, nel momento in cui un mio comportamento in merito a beni che sono in mio possesso diventa addirittura un reato.

In Italia probabilmente non si arriverà a tanto, limitandosi a introdurre incentivi e disincentivi, oltre che utilizzare a investimenti pubblici. Nel suo insieme la nostra società destina alle discariche oltre 5 milioni di tonnellate di cibo ogni anno, mentre si riesce a recuperare solo 550mila tonnellate di prodotti ancora commestibili, ma non più commerciabili. Il governo vuole grosso modo raddoppiare l'ammontare del cibo salvato e per questo immagina un grande piano d'azione.

Tutto questo attesta come nel mondo politico la discussione sul tema sia incapace di mettere a fuoco alcuni dati di fondo cruciali.

Innanzi tutto bisognerebbe comprendere che se oggi l'umanità spreca tanto, questo è anche un effetto di un formidabile successo storico: e cioè del fatto che la nostra capacità produttiva è cresciuta in maniera esponenziale. Nel corso degli ultimi due secoli l'espansione capitalistica ha moltiplicato il cibo e l'ha reso meno costoso. In larga parte del mondo questo ha significato la sconfitta della fame.

È quindi sbagliato evocare il tema dello spreco di cibo per mettere sotto processo l'economia di mercato. Il sistema economico basato sui principi liberali ha semmai il merito di metterci nelle migliori condizioni possibili, potendo disporre facilmente di ciò che è necessario a nutrirci. Per giunta, come ha sottolineato l'Istituto Bruno Leoni in un editoriale sul tema, quasi la metà dello spreco avviene nel Paesi in via di sviluppo ed è soprattutto l'esito di «una scarsa efficienza della rete distributiva, dell'arretratezza dei sistemi agricoli, dell'assenza di strumenti di conservazione e sicurezza alimentare». Non è innanzi tutto il mercato a causare questi sprechi, ma la sua assenza di lunga data.

È ugualmente fuorviante l'idea che della distruzione degli alimenti siano responsabili soprattutto le grandi imprese della distribuzione. Una parte rilevantissima dello spreco avviene nelle mura di casa, perché la gestione familiare degli alimenti non è priva di inefficienze. Solo una quota assai limitata del cibo gettato (circa il 5%) è addebitabile alle imprese e questo è facilmente comprensibile, se si considera che ogni azienda orientata al profitto deve costantemente evitare di destinare risorse a fini non produttivi. E quando questo non succede, non stupisce che le grandi catene dei supermercati si siano attrezzate per regalare quei beni alimentari a chi ne ha più bisogno. In Italia come altrove sono assai attivi i «banchi alimentari» che si muovono proprio per aiutare i più bisognosi, anche ritirando dalle imprese della distribuzione quanto non è più commerciabile.

Certamente tutto è perfettibile e pure nel campo della lotta agli sprechi di cibo si può fare di più e meglio: specialmente se si riuscirà ad alzare ancor più la qualità dei sistemi di conservazione. Non c'è da aspettarsi molto di positivo, al contrario, da una compressione delle libertà di mercato e da un ampliarsi dei poteri di politici e burocrati.

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