Magistratura

Un altro flop del pm De Pasquale: chiesta l'archiviazione per Eni in Congo

In cinque anni la Procura non ha trovato elementi concreti a carico dell'ad Descalzi. I danni all'Italia in campo energetico

Un altro flop del pm De Pasquale: chiesta l'archiviazione per Eni in Congo

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Si ferma davanti al silenzio («senza precedenti», denuncia il procuratore Marcello Viola) del governo di Montecarlo davanti alle rogatorie italiane l'ultima inchiesta sugli affari e le presunte tangenti di Eni in Africa. Se per i filoni di inchiesta sulle concessioni petrolifere ottenute in Algeria e Nigeria erano stati necessari due processi finiti con altrettante assoluzioni in massa, l'indagine sulle attività di Eni in Congo si affossa prima ancora di arrivare a conclusione, per iniziativa della stessa Procura che chiede l'archiviazione del procedimento che vedeva indagato anche l'attuale amministratore delegato Claudio Descalzi.

Per le indagini condotte dal pubblico ministero Fabio De Pasquale contro i vertici dell'ente energetico di Stato è un'altra sconfitta. Ma nel comunicato conclusivo la Procura non rinuncia a sottolineare gli elementi raccolti nel corso delle indagini e che dimostrerebbero a sufficienza l'esistenza di aspetti oscuri nelle attività Eni in Congo. Uno di questi aspetti riguarda personalmente Descalzi, che era stato indagato per conflitto di interessi, in quanto sua moglie Marie Madeleine Ingoba controllava una quota della società Petroserve che - si legge nella nota della Procura - «ha fornito servizi logistici e di trasporto a varie società del gruppo Eni operanti in diversi paesi africani». Ma «in assenza dei flussi finanziari richiesti al Principato di Monaco - rimane non dimostrabile la ricorrenza dell'evento di danno per la società o i terzi»: il conflitto di interessi, mai reso noto da Descalzi, sarebbe insomma stato innocuo. C'è di più: la partecipazione della moglie del top manager nella società che forniva elicotteri e aerei a Eni «risulta provata» solo fino all'8 aprile 2014», quando Descalzi non era ancora al vertice del gruppo. Vi approda un mese dopo, la moglie nel frattempo ha dismesso la partecipazione nella società. La Procura sembra sospettare che si trattasse di una finta cessione: ma anche qua la colpa è di Monaco che non ha mandato le carte in Italia.

L'accusa più grave, quella di corruzione internazionale, era già stata ridimensionata dalla Procura stessa in «indebita induzione», ma questa si prescrive tra poco più di un mese. Gli inquirenti milanesi ribadiscono che «sono emersi elementi indicativi» che in cambio di tre permessi di esplorazione ottenuti nel 2014 i rappresentanti di Eni in Congo, Roberto Casula e Maria Paduano, avrebbe ceduto quote di sfruttamento per un valore di 77 milioni a Denis Gokana, braccio destro del presidente Denis Sassou Nguesso. Ma «tenuto conto della riqualificazione del reato di corruzione in indebita induzione risulta evidente che, quand'anche i documenti richiesti nel febbraio 2018 al Principato di Monaco dovessero infine pervenire, ed eventualmente riscontrare le ipotesi investigative sopra illustrate non ci sarebbe il tempo materiale» per arrivare a una sentenza prima della prescrizione.

Nei cinque anni passati dall'invio della rogatoria a Monaco, a quanto si comprende, la Procura milanese non è riuscita a trovare altri elementi a sostegno delle accuse mosse a Eni, così quelle che inizialmente erano state presentate come certezze oggi vengono retrocesse a «ipotesi investigative»: che nel frattempo hanno fortemente penalizzato le attività del gruppo italiano in uno scenario, come quello africano, su cui l'esistenza di accordi e di tangenti aleggia da sempre.

Ma poi bisogna trovare le prove.

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