Anche 16 anni dopo Nassiriya la politica resta indifferente al sacrificio delle forze armate

Anche 16 anni dopo Nassiriya la politica resta indifferente al sacrificio delle forze armate

Oggi,16 anni dopo Nassiriya, sarò a Montesilvano in Abruzzo per ritirare il premio dedicato alle vittime di quella strage. Quel premio m'inorgoglisce, ma mi fa anche riflettere sulle contraddizioni di un'Italia dove meritoriamente, ma assai singolarmente, è un piccolo comune e non una grande città a ricordare con un premio i nostri caduti. È una delle tante facce dell'indifferenza con cui guardiamo ai caduti e a tutte le Forze Armate. Dal 1983, quando partecipammo alla prima grande operazione internazionale in Libano, siamo perseguitati dall'ipocrisia delle missioni di pace. In virtù di quello stereotipo, indispensabile alle sinistre per giustificarsi davanti ai propri elettori, i militari non rischiano la pelle ai quattro angoli del mondo per garantire la sicurezza, difendere gli interessi nazionali e combattere i terroristi, ma per preservare un nebuloso concetto di pace.

Oltre ad essere ipocrita il concetto è anche deleterio perché impedisce di capitalizzare politicamente i risultati delle missioni e non trasforma in investimenti i miliardi spesi per sostenerle. Partiamo dalle vittime. Solo tra Afghanistan e Iraq abbiamo lasciato più di novanta morti. A loro si aggiungono centinaia di feriti costretti a convivere con le conseguenze fisiche e psicologiche delle guerre a cui hanno partecipato. A nessuno di loro è riconosciuto l'onore di aver combattuto per la propria nazione. Sono vittime di un'ipotetica lotta per la pace in cui il nemico è labile e confuso e in cui l'uso delle armi è un tabù. Difficile dunque che qualcuno si riconosca nel loro sacrificio e si dia la pena di ricordarli. Un altro indice dell'indifferenza con cui la politica guarda alle vite dei propri soldati emerge dalle leggi di bilancio. Nonostante la presenza di settemila militari in aree di crisi non c'è governo tra quelli succedutisi dal 2011 al 2018 che abbia resistito alla tentazione di tagliare le spese della difesa.

Oggi quelle spese sono all'1,15 per cento del bilancio nazionale. Oltre a non rispettare la soglia minima del 2 per cento previsto dalla Nato rendono impossibile il mantenimento degli standard di addestramento e la manutenzione di mezzi e attrezzature indispensabili per la sicurezza. L'indifferenza per i militari morti e per quelli ancora vivi non è priva di conseguenze sul fronte internazionale. I caduti di un paese e i servigi resi nell'ambito delle proprie alleanze servono anche a rivendicare un ruolo all'interno dell'ordine mondiale. Ma per pretenderlo bisogna saper rivendicare con chiarezza l'obbiettivo della missione a cui si è partecipato. Rivendicazione inammissibile per chi continua a nascondersi dietro la foglia di fico della difesa della pace. E così nonostante una presenza nelle aree di crisi pari a quella d'Inghilterra e Francia e assai superiore a quella della ricca, ma imbelle Germania il ruolo internazionale dell'Italia resta marginale. A questi autogol s'aggiunge quello economico e industriale. Le missioni internazionali sono la cerniera indispensabile per garantire sbocchi e visibilità all'industria della difesa. Leonardo, l'ex Finmeccanica, grazie ai 47mila dipendenti, un fatturato da 12 miliardi e una presenza in 20 paesi stranieri è una delle prime nove aziende nel settore Difesa a livello mondiale. Pochi, però, ne vanno orgogliosi.

E pochi sembrano rendersi conto che gli investimenti nella Difesa, al pari del riconoscimento del corretto ruolo delle Forze Armate, sono indispensabili per garantire più ampi mercati non solo a Leonardo e al suo indotto, ma a tutto il sistema Italia.

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