Coronavirus

Perché si fanno pochi tamponi

Perché si fanno pochi tamponi

Un mese fa i virologi sostenevano: «I tamponi saranno fondamentali per passare alla fase 2». Ma non si sa nemmeno quanti ne sono stati fatti dopo i test sierologici. Il commissario per l'emergenza Domenico Arcuri aveva annunciato un piano per processare 92mila tamponi al giorno ma, a parte gli 80mila di ieri, si analizzano poco più di 60mila test al giorno. E, in media 9mila in Lombardia, contro una capacità di analizzarne 23mila. Insomma, la politica dei tamponi, che sono tuttora l'unico strumento certo per diagnosticare il virus, è sempre stata confusa. E ora anche il virologo Andrea Crisanti, che ha fatto tamponare a tappeto quasi tutto il Veneto, sostiene non vadano fatti «a vanvera ma solo intorno ai casi. Se c'è un caso - spiega - si fa tutto il tracciamento, se no non possiamo prendere gente a caso».

Perchè se ne fanno pochi? Al di là di chi sostiene sia solo per far risultare meno contagi (ora di sicuro non ce ne sarebbe bisogno come un mese fa), c'è dell'altro. «Non avrebbe senso farli sugli asintomatici. È molto meglio misurare la febbre anziché fare il tampone a tutti - sostiene Vittorio Demicheli, epidemiologo direttore sanitario Ats Milano e membro della task force anti Covid di Regione Lombardia - Ovviamente non possiamo fare i test senza criterio. Vanno selezionati i gruppi: ad esempio, gli operatori sanitari, gli anziani e via dicendo. La diagnostica a tappeto bloccherebbe il sistema di processamento e basta».

Quindi lo screening deve servire a isolare velocemente i casi positivi e i potenziali focolai quando si ha un sospetto. E proprio su questo punto la Regione Lombardia ha deciso di concentrare le sue forze: quando viene isolato un soggetto positivo, si procede al suo isolamento e a contattare non solo le persone della sua cerchia più intima - come avveniva a febbraio - ma anche quelle di «secondo grado», aumentando di fatto le possibilità di prendere in contropiede il virus. Così si procederà anche in autunno, quando è prevista una nuova ondata di contagi. «Se il virus dovesse ripresentarsi - spiega Demicheli - potremmo comunque essere più generosi nel fare i tamponi perché, a differenza di febbraio, abbiamo i reagenti e anche i posti in ospedale per i ricoveri». Antonio Clavenna, capo dell'unità di farmacoepidemiologia dell'istituto Mario Negri, sostiene che «l'andamento dei tamponi debba seguire quello della situazione epidemiologica: se si fa solo a chi ha i sintomi, allora il numero diminuisce man mano che cala la necessità. Non ha senso farlo alla popolazione in generale».

I problemi sono altri secondo Clavenna, a cominciare dai «tamponi in sospeso» cioè quelli chiesti da persone con i sintomi ma non ancora fatti o effettuati con un paio di settimane di ritardo. «Questo non più a causa della mancanza di reagenti o di materiali nei laboratori - spiega - ma per la carenza di personale». Il lavoro a quanto pare è ancora molto e non riesce a essere smaltito con fluidità anche se il sistema è decisamente più oliato rispetto a un paio di mesi fa. Il fatto che si debba aspettare parecchio per fare un tampone, a catena scoraggia le persone che, nonostante qualche sintomo o conoscenza sospetta, tentennano nel chiedere un tampone o un test sierologico per paura di doversi auto isolare in quarantena proprio ora che il lavoro è ricominciato.

In vista di una ripresa autunnale del virus, gli epidemiologi sollecitano a lavorare su alcuni punti oscuri della diagnostica: non sappiamo quanti tamponi sono stati fatti dopo i test sierologici, non sappiamo quante e quali categorie si sono sottoposte al test nè dove sono stati individuati i focolai di contagio.

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