Gli artisti contro Apple e Samsung ma la tassa occulta la paghiamo noi

Balzello, gabella, tributo, dazio. Per definire «l'equo compenso sulla copia privata» scegliete pure il sinonimo che più vi aggrada. Purché non abbiate l'ardire di chiamarla tassa. Pesa sul nostro portafoglio ed è applicata su un bene di larghissimo consumo, ma se la si chiama tassa c'è chi la prende male. E vogliamo noi, poveri contribuenti, urtare la suscettibilità di personalità del calibro di Bernardo Bertolucci e Roberto Benigni? Non sia mai. E guai anche a chi, banale populista, si azzardi a pensare che è facile per loro difendere questa «tassa occulta» dall'alto dei loro conti correnti ricchi di zeri.

Succede che il ministero della Cultura, guidata da Dario Franceschini, ha rivisto il contributo sulla copia privata. Una somma forfettaria su ogni apparecchio dotato di memoria venduto (quindi smartphone e tablet) da attribuire alla Siae che poi la ripartirà tra i titolari dei diritti. Succede quindi che i principali colossi della telefonia, prima Apple e poi Samsung recepiscano il decreto a loro modo: aumentando i prezzi dei prodotti. Quindi facendo pagare noi. Quindi una nuova tassa.

«Non è una tassa», gridano in coro Bertolucci e Benigni. «Le aziende che scaricano sui consumatori un loro obbligo compiono un atto ingiustificato a difesa degli interessi finanziari di coloro che molto prendono e pochissimo restituiscono alla nostra cultura», aggiungono. Vero. In parte. Perché all'estero, in Francia per esempio, il contributo esiste da tempo e non influisce sul prezzo finale del prodotto. In Italia invece, fatta la legge, trovato l'aumento.

Fa specie che a denunciarlo non sia il pianista di piano bar di periferia, che sul contributo Siae campa, ma multimilionari come Bertolucci e Benigni. Ma non pensiamolo, saremmo maligni. Come se avessimo l'ardire di chiamare tassa il contributo. Anche se di fatto lo è eccome.

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