Alla vigilia del voto l'equazione era: in caso di sconfitta in Toscana e in Puglia si rischiava la crisi di governo; se si fosse persa solo la Puglia c'era un'autostrada per il rimpasto; in caso di pareggio, il governo sarebbe andato avanti tranquillo. Con le urne appena chiuse, i dati degli exit-poll freschi freschi, i leader della maggioranza di governo hanno cominciato a combinare vittorie, sconfitte e percentuali elettorali con le prospettive politiche. Nei ragionamenti con il suo inner circle, Nicola Zingaretti, che ha tirato un sospiro di sollievo visto che fino alla vigilia era terrorizzato dall'idea di diventare il capro espiatorio di una possibile sconfitta, è stato al solito semplice per non dire basico, ma con un tono estremamente compiaciuto: «Il combinato disposto tra la vittoria del Sì al referendum e il probabile pareggio nelle Regionali, con le vittorie del centrosinistra in Toscana e in Puglia, consolida la legislatura, il governo e questa alleanza. Io, comunque, sono sempre dell'idea che sarebbe opportuna una verifica del governo sui programmi e magari sulla sua struttura». Tradotto: il referendum ci dà la possibilità di arrivare fino al 2023, ma il taglio dei parlamentari va accompagnato da riforme che dovrebbero impegnare il Parlamento nei prossimi due anni e da una politica economica meno condizionata dalle ossessioni grilline. A questo punto, quindi, per Zingaretti il rimpasto non è più il primo dei desideri, non ne fa più una malattia, anche perché la sua poltrona nel Pd non è più a rischio.
Matteo Renzi, con i suoi, ha fatto ragionamenti diversi. Ha fatto capire che nella vittoria in Toscana il ruolo di Italia Viva è stato determinante sia nella scelta del candidato, sia nel risultato (anche se i numeri non dicono proprio questo). Poi ha spiegato che con questi dati la sua linea di appeasement con premier, segretario del Pd e con Di Maio è quasi obbligata. Nella sua testa referendum e voto regionale se saranno confermate le tendenze delle proiezioni determineranno il proseguimento della legislatura fino scadenza naturale, la fine della suggestione di un esecutivo Draghi e un'intesa nel tempo con Conte. L'ex premier, però, è sempre più deciso a chiedere un rimpasto di governo come garanzia per un'intesa che duri nel tempo.
Di Maio, invece, si è preparato una filastrocca per trasformare questo voto in un'affermazione personale, tentando di imporre nell'immaginario collettivo l'idea che il referendum è stata la sua vittoria contro tutti: «L'unico che ci ha messo la faccia nella campagna referendaria sono stato io e pochi altri. E anche il voto sulle Regionali dimostra che la ritrosia a stipulare un'alleanza organica aveva un senso: basta paragonare ciò che è avvenuto in Liguria con quanto è accaduto in Puglia». Inutile dire che sull'ipotesi del rimpasto è tiepido: si porterebbe dietro la rivolta degli esclusi dal nuovo esecutivo, che si sommerebbero con i silurati del governo precedente.
Infine Giuseppe Conte, «il Gastone» fortunato della politica italiana, deve ancora un volta ringraziare la sua carta migliore, il fattore C. La vittoria dei Sì, peraltro scontata, infatti, lo mette a riparo da ogni ipotesi di elezioni anticipate. Anzi, quei parlamentari che con il taglio si sentono già fuori nella prossima legislatura, diventeranno d'ora in avanti, al di là dei gruppi parlamentari di cui fanno parte, i suoi principali alleati, visto che Conte si proporrà in assenza di alternative come il riferimento naturale di chi vuole scongiurare ad ogni costo ipotesi di elezioni anticipate. Senza contare che il tre a tre nelle Regionali, lo consolida ulteriormente, visto che a differenza dei vertici grillini si è speso per l'alleanza con il Pd. Il personaggio lo sa e si sente più forte («meglio di così non mi poteva andare»). Per cui i leader della maggioranza dovranno sudare quattro camicie per convincere il premier a dar vita ad un rimpasto di governo nelle prossime settimane: nella sua testa frulla la tesi «squadra che vince, non si cambia», ma il personaggio si sa, è la massima espressione del «pragmatismo» in politica, per cui potrebbe anche cambiare idea in 24 ore.
Mettendo, insieme, quindi, le analisi e gli obiettivi dei leader della maggioranza giallorossa, un dato è sicuro: la vittoria dei Sì garantirà probabilmente la durata della legislatura fino al 2023. Per cui le tesi di chi nell'opposizione osserva che con il taglio questo Parlamento sarebbe delegittimato e bisognerebbe andare al voto prima di elegge il nuovo capo dello Stato, al di là della loro bontà, resteranno lettera morta. Anzi, vittorie (Toscana e Puglia) e sconfitte (specie la Liguria), spingeranno piddini e grillini ad imporre una legge proporzionale, che non obblighi i partiti ad un'alleanza prima del voto ma rinvii la nascita di una coalizione di governo ad una trattativa post-elettorale: per cui i 5stelle potranno mantenere la loro identità e allearsi comodamente, senza stress, con il Pd dopo. E anche nell'opposizione si stanno attrezzando a un simile confronto, se addirittura ieri il capogruppo della Meloni alla Camera ha aperto all'ipotesi di rintrodurre nella prossima legge elettorale un meccanismo che una volta per la destra era un tabù: le preferenze.
Resta da vedere, ed è l'unica incognita, se quanto avvenuto in questa tornata elettorale contribuirà a consolidare i numeri ballerini - del governo in Parlamento o se, invece, Salvini riuscirà a strappare alla maggioranza altri grillini. Il problema, però, è che almeno nel breve periodo il leader leghista avrà meno appeal, mentre i gruppi parlamentari di Forza Italia saranno sottoposti al canto delle sirene da un parte di Renzi, dall'altra di Calenda, senza tralasciare i rapporti privilegiati che da un anno lo stesso premier coltiva in Parlamento. Certo, poi, le cose possono anche cambiare. Le differenze programmatiche tra piddini e grillini sono all'ordine del giorno, come pure la difficoltà di coniugare le fobie grilline con una politica che sia all'altezza del Recovery fund europeo. Solo che queste elezioni hanno dimostrato che pure il centrodestra deve ripensarsi, ristrutturarsi o magari dar vita ad altro. È obbligato a farlo da una parte per il più che probabile ritorno al proporzionale. Dall'altra dagli insegnamenti che vengono da questi risultati: le sconfitte di Caldoro e Fitto dimostrano che c'è bisogno di un rinnovamento della classe dirigente (basta guardare, al contrario, ciò che è avvenuto in Liguria e in Veneto); ed ancora, la sconfitta del format Salvini in Toscana, invece, dimostra che una certa politica, una certa immagine favorisce chi sul versante del centrosinistra gioca tutta la partita sull'appello contro il pericolo che di volta in volta assume le sembianze del populismo, del fascismo, o dell'anti-europeismo. Una battuta di arresto che stride di fronte alle proporzioni della vittoria dello stile Zaia in Veneto. «Noi è l'appello di Gianfranco Rotondi dobbiamo uscire dal ghetto, ma non per andare con Conte visto che il rischio di elezioni non c'è più, ma per immaginare qualcos'altro». Appunto, il risultato delle Regionali combinato con il risultato del referendum e l'approdo al proporzionale, potrebbe avere come conseguenza anche una diaspora nell'area moderata del centrodestra.
In fondo De Luca (nelle quattordici liste che lo hanno appoggiato c'erano anche ex di Forza Italia) e, soprattutto, Emiliano («popolari per Emiliano») hanno vinto mettendo in campo pezzi di gruppi dirigente e di elettorato che una volta appartenevano al centrodestra.
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