«Non potevano accusarmi per delle menzogne dette da qualcuno. Non c'era altro». Piange Fausta Bonino, l'infermiera dell'ospedale Villamarina di Piombino (Livorno), finita sotto processo per i decessi di dieci pazienti avvenuti nell'unità operativa di anestesia e rianimazione della struttura sanitaria tra il settembre del 2014 e il settembre del 2015. Le lacrime le rigano le guance mentre la corte d'appello di Firenze legge la sentenza, alla presenza dei suoi familiari, che l'assolve dal reato di omicidio plurimo volontario.
Fausta è stata condannata invece a un anno e mezzo per ricettazione, perché nel corso di una perquisizione a casa sua gli investigatori avevano trovato farmaci che lei aveva sottratto all'ospedale. Ma è ben poca cosa rispetto all'altro reato che le era stato addebitato: aver ucciso somministrando arbitrariamente un farmaco anticoagulante (l'eparina), senza che vi fosse alcuna prescrizione nelle cartelle dei malati, in dosi tali da cagionare la morte.
Così l'avevano definita per anni infermiera killer, proprio come la collega Daniela Poggiali indicata come responsabile nel 2014 del decesso all'ospedale Umberto I di Lugo (Ravenna) di un uomo e una donna, ai quali si sospettava avesse praticato iniezioni di potassio. Ma la Poggiali è stata assolta a ottobre dalla Corte di assise di appello di Bologna perché «il fatto non sussiste» nel corso dell'appello ter.
In primo grado, invece, la Bonino era stata condannata all'ergastolo per quattro dei dieci decessi contestati. Nella sua requisitoria nel processo d'appello il pg Fabio Origlio aveva chiesto addirittura la stessa condanna per nove dei dieci casi contestati. Invece le testimonianze di quattro persone, tra medici e infermieri dell'ospedale di Piombino, sono state determinanti per ridarle la libertà. E hanno ribaltato la questione. I camici bianchi hanno spiegato infatti ai giudici che l'accesso al reparto dove era in servizio l'infermiera era possibile anche senza badge di riconoscimento del personale autorizzato.
«Io credo - ha sottolineato l'avvocato Vinicio Nardo, che il difende la donna - che la chiave siano state queste testimonianze e sia stata anche l'evidenza di altri elementi che in primo grado erano stati ritenuti certi ma che certi non erano, quindi la catena del ragionamento accusatorio si è spezzata in più punti».
«Ci voleva grande professionalità per assolvere Fausta Bonino - ha aggiunto il legale - e la corte di appello di Firenze ce l'ha avuta. Credo che si sia fatta giustizia dopo anni passati nel frullatore della mia assistita. La sentenza di primo grado oggettivamente non reggeva. Dava per certa una serie di fatti, come il tipo di sostanza usata (eparina), il metodo di somministrazione e la presenza in reparto che invece erano tutt'altro che certi.
Bisogna invece sempre avere dei dubbi e fare delle indagini su tutti gli aspetti che emergono. Gli inquirenti hanno dato per scontato che l'ingresso al reparto fosse controllato e invece non lo era. E chiaramente questo è un sassolino che diventato una slavina».
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