Atenei Usa, altra stretta. Basta visti agli stranieri

Mossa di Trump: stop ai colloqui per i permessi e controlli sui social. Nuovo taglio a Harvard

Atenei Usa, altra stretta. Basta visti agli stranieri
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La battaglia che l'amministrazione Trump sta combattendo contro le università dell'Ivy League, bastioni del pensiero progressista, ma anche motori della ricerca e dell'innovazione e calamite per le migliori menti del Pianeta non accenna a calare di intensità. In un uno-due che potrebbe mettere definitivamente in ginocchio Harvard, il più ricco e prestigioso ateneo statunitense, arrivano due notizie. La prima, lo stop ai residui 100 milioni di dollari di contratti che l'università ha ancora in piedi con il governo federale. Un taglio che si aggiunge agli altri 2,6 miliardi di dollari di fondi che la Casa Bianca ha già congelato e per i quali Harvard ha fatto ricorso in tribunale.

La seconda notizia punta invece a colpire una delle principali fonti di reddito non solo di Harvard, ma delle maggiori università Usa: le iscrizioni degli studenti stranieri. Dopo la minaccia di revoca all'ateneo di Boston del permesso di accettare iscrizioni da Oltreoceano, per ora bloccata da un giudice federale, l'Amministrazione Usa, attraverso il dipartimento di Stato, ha di fatto sospeso la concessione dei visti studenteschi in tutto il mondo. Il segretario di Stato Marco Rubio ha ordinato alle ambasciate e alle sedi consolari Usa di fermare le procedure, in vista dell'introduzione di norme più stringenti per la concessione dei visti. Come è scritto in un cablo inviato alle varie sedi diplomatiche, ci sarà «un'espansione dello screening e della verifica obbligatori sui social media». In breve, verranno esaminati gli account social dei richiedenti, alla ricerca di post che possano indicare un orientamento politico sgradito, in particolare riguardo a Israele e la guerra a Gaza. Non è una novità assoluta, perché già in questi mesi l'amministrazione aveva imposto uno screening degli account social, rivolto soprattutto agli studenti già in possesso di visto che avevano partecipato nei campus alle proteste pro palestinesi. E tuttavia, la nuova mossa indica un cambio di passo nella più ampia offensiva che la Casa Bianca di Trump sta combattendo contro le università di élite, come la Columbia e Harvard, appunto, accusate di avere alimentato una deriva antisemita, consentendo che i campus finissero sotto il controllo di frange estremiste di docenti e studenti. A sinistra, i critici considerano l'accusa di antisemitismo - nonostante i tanti episodi denunciati durante le proteste pro Gaza - come strumentale nella guerra culturale che la Casa Bianca di Trump sta combattendo contro le università liberal per costringerle a dare spazio anche alle voci conservatrici, che in questi anni sarebbero state sempre più emarginate. Architetti di questa guerra sono Stephen Miller, il viceconsigliere di Trump per la Sicurezza nazionale, di fatto responsabile delle politiche interne, a cominciare da quelle contro l'immigrazione illegale. E Christopher Rufo, un attivista conservatore teorico del ri-bilanciamento culturale: «Le università sembrano onnipotenti e si sono comportate come se lo fossero, e finalmente gli stiamo facendo vedere che possiamo colpirle dove fa male» è la dichiarazione di guerra lanciata qualche tempo fa in un'intervista.

Paradossalmente, come per la battaglia contro le politiche Dei (diversità, equità, inclusione) care ai Democratici, Rufo sta impugnando proprio il Civil Rights Act, la legge firmata nel 1964 da Lyndon Johnson per combattere la discriminazione razziale contro i neri, per contestare le presunte discriminazioni nei campus ai danni dei bianchi conservatori e degli studenti di religione ebraica.

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