Aziende, occhio all'Iva. Tolleranza zero per chi tarda a versarla

La magistratura cambia le regole sulla soglia di punibilità, migliaia di società ora a rischio

Aziende, occhio all'Iva. Tolleranza zero per chi tarda a versarla

Milano - Tempi duri per gli imprenditori che, schiacciati nella morsa della crisi, non sono riusciti a versare allo Stato le tasse sul valore aggiunto, la famigerata Iva. Contro di loro la magistratura sta inaugurando una nuova linea di «tolleranza zero»: anche chi nei periodi successivi al «buco» è riuscito a rimettersi almeno in parte in regola con il fisco, finirà sotto processo penale e rischia di trovarsi con la fedina penale macchiata. Con le conseguenze che si possono immaginare nel rivolgersi alle banche, nel muoversi sui mercati, insomma nel cercare di tenere a galla l'azienda.

Il tema riguarda un numero incalcolabile di aziende in Italia, e ruota intorno alla «soglia di punibilità». Lo Stato, come è noto, utilizza di fatto le aziende come esattori per suo conto, e si fa poi girare l'Iva (pari al 22 per cento) riscossa. Quando le aziende vanno in affanno, il ritardo nel versare l'Iva allo Stato è uno delle poche fonti di ossigeno cui possono attingere, a meno di non bloccare stipendi e pagamenti ai fornitori. Lo Stato considera con una certa indulgenza i ritardi meno rilevanti, colpendoli solo con una sanzione amministrativa se non superano un tetto di 250mila euro all'anno; aldisopra scatta la denuncia alla Procura. La soglia fino a un anno fa era di 50mila euro, poi il governo Renzi l'ha alzata, inasprendo però pesantemente le pene per chi sfora.

Già, ma cosa succede se dopo avere superato il tetto, un imprenditore riesce a ripagare una parte degli arretrati, riportandosi sotto la soglia? Finora la linea della Procura della Repubblica di Milano era chiara: reato estinto, processo archiviato. Una linea che si basava sia sulla interpretazione del diritto (secondo molti giuristi il mancato pagamento dell'Iva non potrebbe nemmeno essere considerato un reato) sia sul buon senso: perché affossare una azienda che si sta rimettendo in piedi, e potrebbe tornare a produrre utili e quindi tasse?

Ma adesso ecco la svolta. Dai giudici preliminari del tribunale di Milano, chiamati a vagliare le richieste di archiviazione presentate dalla Procura, sono partite una raffica di risposte negative. Trenta, una dopo l'altra, nei giorni scorsi. Panico, tra gli imprenditori e i loro difensori, che si sentivano già quasi fuori dai guai. Per tutti gli imprenditori sotto accusa la Procura dovrà cambiare linea, e chiedere il rinvio a giudizio e il processo. E non è una raffica occasionale: l'impressione è che altri «no» arriveranno dai giudici nel prossimo futuro. Tanto che la Procura avrebbe deciso di adeguarsi d'ora in poi alla «linea dura».

Centinaia di imprenditori si troveranno sul banco degli imputati anche se stavano cercando di smaltire, magari con fatica, l'arretrato con lo Stato. Perché? Il ragionamento dei fautori della svolta repressiva è, tecnicamente, non privo di basi: per legge il reato è avvenuto, nel momento in cui, alla fatidica scadenza del 27 dicembre di ogni anno, l'Iva non era stata versata. Reato avvenuto, processo inevitabile. Ma sull'altro piatto della bilancia ci sono, oltre agli interessi delle aziende colpite, anche i numerosi proclami contro il sovraccarico della giustizia penale, intasata da milioni di processi per fatti quasi irrilevanti.

In teoria, gli imprenditori che si troveranno accusati di non avere pagato l'Iva potranno chiedere di venire assolti per la «particolare tenuità del fatto», in base alla nuova legge: ma anche quella legge sta faticando a trovare applicazione concreta.

E questo accade a Milano, in un solo tribunale, dove si trovano a scontrarsi interpretazioni della legge diametralmente opposte. Si può immaginare cosa accade nel resto d'Italia dove ogni giudice fa a modo suo.

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