Brexit

Le banche centrali vanno all'attacco

Draghi e altri 60 governatori riuniti per studiare le contromisure dopo lo strappo

Le banche centrali vanno all'attacco

Si sono visti a Basilea, il terreno più neutrale per discutere di Brexit, del venerdì choc nelle Borse mondiali e delle contromisure da prendere per evitare il peggio. Un vero parterre de roi composto da ben 60 banchieri centrali riuniti in occasione, ieri a Basilea, dell'annuale Global economy meeting della Banca dei regolamenti internazionali. Un vero e proprio summit, ospitato da quella che è la banca centrale delle banche centrali, in un sabato d'estate caldo ma non per motivo climatici. C'era Mario Draghi, presidente della Bce, e non è mancata la partecipazione del governatore di Bankitalia, Vincenzo Visco, nè quella di Jens Weidmann, capo della Bundesbank e acerrimo nemico di quelle misure di sostegno all'economia che hanno almeno evitato sconquassi l'altroieri sul mercato dei titoli di Stato. Non confermata, invece, la presenza della numero uno della Fed, Janet Yellen, comunque alle prese con le ripercussioni causate negli Usa dallo strappo inglese, che verosimilmente impedirà un rialzo dei tassi entro la fine dell'anno.

Per tradizione, il vertice si chiude senza dichiarazioni da parte dei partecipanti. Consegna del silenzio rispettata anche (e forse a maggior ragione) in questa circostanza. Il solo a parlare, il presidente del Global Economy Meeting, Agustin Carstens: i banchieri «sostengono le misure contingenti messe in campo dalla Banca d'Inghilterra e sottolineano la prontezza delle banche centrali a supportare l'adeguato funzionamento dei mercati finanziari». Un'altra sottolineatura riguarda lo stretto rapporto di cooperazione tra le banche centrali, mentre manca ogni riferimento alle eventuali linee di swap che potrebbero essere già state attivate venerdì scorso per affrontare le tensioni sui mercati. Vedremo domani, alla riapertura dei mercati.

Ora che è stato consumato il divorzio dal Vecchio continente, resta da vedere se le grandi banche d'affari straniere (e non solo) decideranno di abbandonare la City. Un trasloco tutt'altro che indolore per Londra e per l'intera Gran Bretagna, visto che l'apporto del settore finanziario al Pil si aggira attorno al 20%. Alcune stime azzardano la perdita di 70-100mila posti di lavoro se quello che finora è stato il tempio del business europeo dovesse sopportare l'esodo delle merchant bank.

L'americana JP Morgan sembra per esempio intenzionata a trasferire fino a 4mila dei complessivi 16mila dipendenti occupati nel Regno Unito. Deutsche Bank sta studiando da mesi su quale sarà il destino dei 9mila lavoratori «inglesi». E se Morgan Stanley ha smentito le voci circolate nelle ultime ore secondo le quali la banca è pronta a spostare la sua sede e i suoi lavoratori fuori dalla Gran Bretagna, la britannica Hsbc ha già ventilato la possibilità di imbarcare su un volo per Parigi un migliaio dei propri dipendenti. Sono solo pochi esempi, ma è molto probabile che molti gruppi stiano meditando di staccare la spina dall'Inghilterra. E non solo stranieri, come dimostra l'invito rivolto dal gruppo lobbystico Frankfurt Main Finance agli operatori inglesi a trasferire le loro attività sul Meno per poter beneficiare di maggiore sicurezza e stabilità.

È però prevedibile che Londra cercherà in tutti i modi di impedire che i gruppi finanziari facciano i bagagli. C'è chi ipotizza l'adozione di un modello fiscale perfino più leggero di quello irlandese, con l'aggiunta di altre forme di incentivo anche per attrarre chi, finora, non ha mai messo piede sul suolo inglese. In ogni caso, l'Inghilterra ha già qualche asso nella manica. La pressione fiscale sulle imprese è infatti la più bassa in Europa, con un 32% da confrontare col 48,8% della Germania e il terrificante 64,8% dell'Italia. Dal 2000, la stessa pressione fiscale in proporzione al Pil è scesa dell'1,8%. Meglio solo Berlino, con un -2,1%, mentre nel Belpaese - manco a dirlo - la voracità del Fisco è cresciuta del 3,6%.

Il Regno Unito, in base al ranking della Banca Mondiale, occupa il 15esimo posto nella classifica internazionale del miglior sistema fiscale, mentre quello italiano è relegato al 137esimo.

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