Un banco di prova per il Medioriente. La sfida tra nemici sarà la convivenza

Il ruolo del Qatar e degli Emirati e una supervisione mai accettata. L'ostacolo di un disarmo complicato

Un banco di prova per il Medioriente. La sfida tra nemici sarà la convivenza
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Per Donald Trump "ci siamo". E quella di ieri è stata una "giornata epocale". Azzardare tanto ottimismo dopo 725 giorni di guerra che hanno annegato nel sangue tutte le illusioni di pace germogliate negli ultimi cinquant'anni è un esercizio assai rischioso. Però i 20 (e non più 21) punti dell'accordo di pace messi insieme dall'amministrazione Trump d'intesa con i Paesi Arabi, e ieri con Benjamin Netanyahu, qualche speranza la offrono. Come peraltro la telefonata all'Emiro del Qatar con cui - il premier israeliano s'è scusato per il raid aereo su Doha destinato, nei propositi, ad eliminare la dirigenza di Hamas all'estero.

Se il Bibi sopravvivrà alle imboscata dei "falchi" pronti a fargli scontare il cosiddetto "piano Trump", allora per gli abitanti di Gaza e per gli ostaggi israeliani si aprirà un nuovo orizzonte. Sarà di breve termine per gli ostaggi destinati a venir immediatamente scambiati con 250 palestinesi condannati all'ergastolo e 1.500 catturati a Gaza. Sarà di lunghissimo termine, invece, per Gaza, e per il resto del Medioriente. La Striscia diventerebbe infatti l'asse gravitazionale su cui ruoterebbero i rapporti tra Israele e Stati Arabi. Con l'America chiamata a far da arbitro e moderatore guidando un "gabinetto di pace", ovvero un entità transnazionale affidata a Donald Trump e Tony Blair. Spetterà a quest'entità supervisionare la gestione della Striscia affidata ad una forza araba e ad un comitato di maggiorenti palestinesi. Il dispiegamento di una forza di pace araba incaricata di disarmare Hamas operando su un territorio che Israele considera "conteso" rappresenterebbe da solo un fatto senza precedenti. In 74 anni di esistenza lo Stato ebraico non ha mai accettato la presenza di truppe straniere in zone dove fosse in gioco la propria sicurezza.

Come tutte le novità anche questa convivenza sul fronte di Gaza garantirebbe, oltre alle speranze, anche insondabili incognite. Una capacità delle forze arabe di procedere al disarmo, all'emarginazione politica di Hamas, alla deradicalizzazione della Striscia e alla ricostruzione dei centri abitati, garantendo le proprietà palestinesi, faciliterebbe il rilancio degli accordi di Abramo. Dall'altra parte un disarmo esitante, unito al persistere di una presenza fondamentalista, minerebbe ulteriormente i rapporti tra Stato ebraico e vicini arabi. Amplificando il clima di scontro creatosi dopo il 7 ottobre. Dall'altra parte un disarmo effettivamente gestito da Doha, madrina di quella Fratellanza Musulmana da cui è nata Hamas e finanziatrice del riarmo che ha permesso le stragi del 7 ottobre, consentirebbe una rivalutazione politica dell'Emirato. Un fallimento ne confermerebbe invece la sostanziale ambiguità mettendone definitivamente in crisi lo "status" di alleato di Washington. A far da contrappeso alle incognite qatariote resterebbero comunque i regni di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, nemici giurati dell'Islam politico e alfieri di un Medioriente trasformato in ponte commerciale con l'India.

Un ponte fondamentale nei piani di Trump, per contrastare gli assetti commerciali sviluppati da Pechino sulla Via della Seta. Ma una Gaza guidata politicamente da un entità transnazionale incaricata di riformare l'Autorità Palestinese diventerebbe anche il banco di prova per il rilancio di quell'idea di Stato Palestinese che sembrava fino a ieri definitivamente sepolta.

E questo contribuirebbe a risanare i rapporti con Giordania ed Egitto portati al punto di rottura dagli annunci israeliani sulla possibile annessione della Cisgiordania e sul trasferimento forzato della popolazione palestinese di Gaza. Sempre che la "giornata epocale" promessa da Trump non si riveli, già oggi, l'ennesima promessa mancata.

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