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Bandiere e inni a Trump: Hong Kong in piazza accende la crisi Cina-Usa

Cortei e scontri, i manifestanti chiedono l'aiuto del tycoon. Che difficilmente arriverà

Bandiere e inni a Trump: Hong Kong in piazza accende la crisi Cina-Usa

La tregua a Hong Kong è già finita. Una settimana dopo la vittoria a valanga dei candidati democratici nelle elezioni distrettuali, i manifestanti sono tornati in massa nelle strade della ex colonia britannica divenuta regione autonoma della Cina comunista, e la polizia è tornata alle vecchie abitudini: gas lacrimogeni e manganelli. Qualcosa però è nel frattempo cambiato: i dimostranti ostili a Pechino hanno trovato (o sperano di aver trovato) in Donald Trump un potente alleato della loro causa, dopo che il presidente degli Stati Uniti ha firmato nei giorni scorsi la legge votata quasi all'unanimità dal Congresso che impegna Washington a sorvegliare il comportamento delle autorità cinesi nei confronti di Hong Kong, e in particolare a sanzionare i soggetti cinesi che dovessero violare gli impegni presi a rispettarne l'autonomia.

Per questo, ieri, si sono svolte in realtà due manifestazioni a Hong Kong. La più affollata somigliava a quelle dei mesi scorsi, con la differenza non secondaria che non è stato fatto ricorso ad atti violenti: le migliaia di persone in marcia dietro lo striscione «Liberate Hong Kong» (molte delle quali giovani e famiglie con bambini piccoli) cantavano l'inno degli studenti «Revolution of our time», che è poi un invito a lottare contro l'assimilazione della città nella Cina comunista. La seconda, invece, si è diretta verso il consolato degli Stati Uniti sventolando bandiere a stelle e strisce e mostrando cartelli con parole di ringraziamento per Trump e per l'America, gli unici che nel concreto abbiano fin qui dimostrato di voler fare qualcosa a sostegno della causa democratica e filoccidentale dei cittadini di Hong Kong. Anche qui si è visto e udito l'esplicito invito al presidente americano a «liberare Hong Kong».

Tutto questo, com'è ben noto, è fumo negli occhi di Xi Jinping, che ripete agli americani che tutto ciò che accade a Hong Kong sono soltanto affari interni della Cina. A Pechino non hanno la minima intenzione di fare anche un solo passo indietro dalle loro posizioni: dopo lo smacco delle elezioni locali stravinte dall'opposizione democratica, il governo cinese non ha perso tempo a precisare che «Hong Kong rimarrà cinese per sempre a prescindere da qualsiasi risultato elettorale», e per parte sua la governatrice di Hong Kong Carrie Lam non è andata al di là di generiche promesse di ascoltare le lagnanze della popolazione, senza ovviamente chiamarle per nome: questo perché il voto è stato un plebiscito anticinese e anticomunista, e bisogna continuare a fingere che così non sia stato.

Dopo aver fatto convocare l'ambasciatore americano a Pechino due volte, prima per esortare Trump a non firmare l'Hong Kong Human Rights Act e poi per protestare per averlo fatto, Xi ha reagito al coinvolgimento Usa nelle vicende della ex colonia proponendo agli americani termini più duri nei negoziati che dovrebbero portare alla fine della guerra commerciale tra i due colossi del XXI secolo. Il braccio di ferro tra Pechino e Washington certamente continuerà, ma c'è qualcosa di eccessivo nelle speranze che i manifestanti di Hong Kong ripongono in Donald Trump: il presidente americano, infatti, ha siglato la legge che tanto irrita il governo cinese senza alcun entusiasmo, anzi accompagnando l'atto della firma con una dichiarazione ambigua che accompagna il sostegno ai dimostranti per la libertà a quello a Xi affinché «svolga bene il suo lavoro».

La netta sensazione è che Trump preferisca essere rieletto grazie a un buon accordo con la Cina piuttosto che comprometterlo per i suoi ingenui ammiratori di Hong Kong.

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