Battaglia finale all'Isis : ultimi giorni a Sirte per i fanatici del califfo

Scontri sanguinosi casa per casa nella «capitale» jihadista

Fausto Biloslavo

Sirte (Libia) Sul tetto della palazzina sbrecciata dalle cannonate tenere bassa la testa ti salva la pelle. I proiettili dei cecchini sibilano dappertutto. La raffica di mitragliatrice sventaglia le postazioni dello Stato islamico. Un ragazzo poco più che ventenne imbraccia l'arma sparando all'impazzata. Un altro, ancora più giovane, è rannicchiato al suo fianco e lo segue per far scorrere il nastro di pallottole.

Il quartiere Abu Faraa, a ridosso del centro di Sirte, è avvolto nel fumo nero dei colpi di artiglieria e degli attacchi con i droni americani. La battaglia finale per la caduta dell'ex roccaforte delle bandiere nere è iniziata domenica con aspri combattimenti durati fino a sera. «Tre o quattro giorni e liberiamo Sirte dai terroristi», sentenzia il colonnello Ismail Shoukri, comandante dell'intelligence. Non è una passeggiata. Le ultime, poche centinaia di miliziani del Califfo, piuttosto che arrendersi si fanno ammazzare. L'assalto ad Abu Faraa scatta alle sette del mattino ed è subito scontro feroce. I vecchi carri armati di fabbricazione sovietica sferragliano per piazzarsi su una postazione sopraelevata. Se un invisibile cecchino spara da un palazzo gli tirano una cannonata.

I combattenti delle katibe, le unità libiche in prima linea contro le bandiere nere, urlano Allah o Akbar, Dio è grande, ad ogni esplosione. Giovani ed anziani di Misurata, Tripoli, Zliten, Zuara e altre città una volta tanto sono uniti per sconfiggere lo Stato islamico con l'appoggio aereo americano. I fuoristrada con la mitragliatrice contraerea sul cassone posteriore, che sfrecciano agli incroci, sono l'arma migliore. I combattenti della katiba Abu Slim, della capitale, dedicata al martire Salah al Burki, corrono verso la montagnetta di sabbia che blocca la via, a ridosso della terra di nessuno, prendendo posizione.

Un mortaio pesante nascosto da qualche parte fra le case alle nostre spalle lancia tre colpi a distanza di pochi minuti verso una palazzina in mano allo Stato islamico con un boato pazzesco. Dal buco nel muro utilizzato da un cecchino si vede bene la parte deserta della città ed il fumo nero alzato dall'impatto delle granate di mortaio. Dietro un edificio ridotto a groviera dai combattimenti vengono distribuite bottigliette d'acqua fresca, mele, dolci e lattine di Pepsi Cola ai combattenti assetati con una temperatura che sfiora i 40 gradi. «Sir, come va?» urla sorridendo un ragazzino magro e sbarbatello. Fino a ieri faceva il cameriere in un caffè di Misurata. Oggi è in guerra.

La battaglia si concentra attorno all'ufficio delle Finanze di Al Hesba. Le raffiche si alternano al tonfo delle esplosioni. Tutti, compresi i giornalisti, devono appiccicarsi addosso degli adesivi color giallo per non farsi ammazzare dal fuoco amico. Ogni giorno il colore cambia evitando infiltrazioni delle bandiere nere. Il tributo di sangue dell'avanzata registra 15 morti e un'ottantina di feriti. A ridosso della prima linea i libici hanno ricavato un pronto soccorso in un negozio abbandonato. Dall'ambulanza esce una barella con un combattente colpito al fianco da un proiettile. Semi incosciente lo sdraiano su una lettiga e tagliano la giacca mimetica. La ferita è grave. Si vede il foro d'entrata, ma non quello di uscita. Non ce la farà. Sugli altri lettini da campo c'è un ferito bianco come un lenzuolo per il sangue che ha perso e altri meno gravi. I giovani infermieri infilano l'ago delle flebo nelle vene ed i medici lottano per stabilizzare i pazienti ed evacuarli agli ospedali da campo alle porte di Sirte e Misurata. «Abbiamo bisogno di ortopedici e chirurghi esperti in lesioni traumatiche. L'Italia ci aiuta e vi ringraziamo, ma ci serve di più e subito» spiega Mohammed Lajnef, che per tutto il giorno cerca di strappare i feriti alla morte.

Una camionetta stracolma di combattenti arriva a tutta velocità. Gli uomini armati urlano e trascinano giù una donna con il capo coperto e una tunica rossa fino ai piedi. «È una maledetta sposa di un terrorista. Sparava anche lei e ha colpito due dei nostri prima che la catturassimo» racconta trafelato una specie di Rambo libico in mimetica sudato fradicio. La donna viene consegnata all'intelligence, come il ragazzino, neppure maggiorenne, che arriva poco dopo. La guerra a Sirte è senza pietà. I droni americani hanno filmato donne e bambini delle famiglie dello Stato islamico, che scendevano in strada per fare da scudi umani ai bombardamenti.

In una stradina laterale appena liberata ci mostrano tre corpi aggrovigliati dei miliziani jihadisti. Quello in mezzo sta cominciando a gonfiarsi per il caldo, ma si vede che ha la pelle scurissima e le sembianze diverse dagli altri. Forse è un volontario della guerra santa nigeriana di Boko Haram. La scena più incredibile è quella di un furgoncino corazzato in maniera artigianale fermo in mezzo alla strada. Sul volante è riverso il corpo di un kamikaze. La lamiera è ridotta ad un groviera dai proiettili di mitragliatrice pesante. Un cecchino deve averlo colpito, ma nel cassone sul retro ci sono ancora bombole di gas, esplosivo e fili per l'innesco. Nessuno osa toccarlo per timore che salti tutto in aria.

Ampie aree residenziali del quartiere 1 e del quartiere 3 di Sirte, a ridosso del mare, sono ancora in mano alle bandiere nere, ma la fine della «capitale» del Califfato in Libia è vicina.

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