Adesso anche Marco Travaglio sperimenta sulla sua pelle una legge che non sta scritta in nessun codice ma che viene applicata in modo ferreo: la reputazione dei giudici vale più di quella di qualunque altro cittadino. Quando nei processi per diffamazione a mezzo stampa la vittima (presunta) è un magistrato, volano risarcimenti che sono dieci o venti volte quelli riconosciuti alle vittime normali: per il semplice, umanissimo motivo che a quantificare il danno è un collega della vittima, un giudice come lui, e come lui convinto che infangare una toga sia un vulnus alla democrazia. E che come tale vada represso con eccezionale severità.
Del canale preferenziale di cui godono i magistrati quando si sentono offesi da un articolo di stampa, il Giornale in questi anni ha sperimentato sulla sua pelle tutta l'asprezza: effetti collaterali della sua battaglia contro la malagiustizia. Ma quando bussano a risarcimenti, i giudici non guardano in faccia a nessuno. Nemmeno se il presunto diffamatore è un opinionista che da sempre è dalla parte delle toghe; un giornalista che nel secolare faccia a faccia tra giudice e imputato ha scelto risolutamente di stare col primo. Così tre giudici hanno fatto causa a Travaglio. E sul direttore del Fatto Quotidiano è piombata una batosta da lasciarlo tramortito: condanna per diffamazione, e centocinquantamila euro di risarcimento.
É una cifra importante, oggettivamente intimidatoria per la libertà di stampa. Nel bilancio del Fatto (da cui probabilmente Travaglio attingerà i soldi per il risarcimento) centocinquantamila euro si sentono. Verrebbe da dire: benvenuto, caro Marco, nel circolo dei giornalisti mazzolati per avere criticato il potere irresponsabile che amministra la giustizia in questo paese.
Peccato che la vicenda che ha portato alla condanna di Travaglio racconti un'altra storia. A querelarlo furono infatti tre giudici palermitani - Mario Fontana, Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere - colpevoli unicamente di avere osato assolvere due ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di avere protetto la latitanza di Bernardo Provenzano. Per la Procura di Palermo, la mancata cattura di «Binnu» era prova lampante della trattativa occulta tra Stato e mafia, e il processo a Mori e Obinu un prequel dell'interminabile maxiprocesso sulla presunta trattativa. Ma nel luglio 2013 la quarta sezione del tribunale palermitano assolse i due ufficiali. Opacità, scrissero i giudici, nell'operare: ma nessuna traccia di una volontà di aiutare Cosa Nostra.
La procura di Palermo si indignò, e ancora più si indignò Travaglio, che scagliò sui tre giudici colpevoli di assoluzione un articolo violento, indicandoli con nome e cognome come autori di una «sentenza cluster», una bomba a grappolo destinata a devastare tutti gli altri processi sulla trattativa: «possibilmente scomodi per il potere». Asservimento al potere politico, questa l'accusa che i tre ritennero indigeribile. Denunciarono Travaglio. E la eclatante sentenza dà loro ragione.
Travaglio ha affermato di avere esercitato il suo diritto di satira e di critica. Ma il problema è un altro: a Travaglio non piacciono le assoluzioni. Gli avvisi di garanzia, per lui sono sufficienti a marchiare un uomo come colpevole; e se poi una sentenza assolve, allora è la sentenza ad essere un errore giudiziario, e magari anche frutto di corruttela.
La vera giustizia è quella delle indagini preliminari, amministrata dai pm; di sentenze e di giudici si potrebbe fare serenamente a meno. Ma il codice, per ora, si ostina a prevedere entrambi: e se un giudice assolve non è per forza un mariuolo.
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