In 500 a dormire nei container, le latrine improvvisate reggono l'urto a stento, fuori c'è solo polvere e noia ma chi abita qui gode del privilegio dell'invidia. Gli «ospiti» del Cara di Caltanissetta hanno vinto un tetto di lamiera sulla testa. Per conquistarlo c'è la lista d'attesa, annotata su un fogliaccio: una sessantina di nomi, quelli di chi non ha conquistato nemmeno il misero rifugio del Cara e attende in una favela sotto un ponte. L'istantanea non è di questi giorni d'Italia sorpresa dalla solita emergenza telefonata, ma risale a settembre 2014, quando gli attivisti di «Lasciatecientrare» hanno visitato il centro di accoglienza di Caltanissetta, gestito da una coop finita pochi mesi dopo nella centrifuga di Mafia capitale. Da ieri anche Roma ha un campo profughi, una tendopoli «allestita in tempi record», dicono dal Comitato per l'ordine e la sicurezza, riunito dopo tre giorni in cui 150 profughi hanno dormito per terra alla stazione Tiburtina. Scommettiamo che la «tendopoli temporanea in attesa di un centro di accoglienza» diventerà una stabile favela?
Già, l'accoglienza. Mai parola fu più ipocritamente abusata. Si accoglie chi arriva, non chi cerca un passaggio. I bivacchi ferroviari alla Centrale di Milano e a Roma Tiburtina non sono l'apice di un fenomeno incontrollato e imprevisto, sono solo intoppi nella macchina poco oliata dell'Italia scafista. Il Belpaese non è la terra promessa per i disperati in fuga da Eritrea e Siria che approdano nella Penisola come se trasbordassero da una nave all'altra. Per loro siamo una grande stazione, un Paese-sala d'aspetto dove attendere l'imbarco per il futuro. Bizzarro ruolo per una terra dove fare il pendolare è una sciagura, un malocchio che ti ruba il tempo. E infatti da Roma a Milano ci riempiamo di bivacchi di chi è in perenne attesa della prossima partenza. Siamo in un campo profughi di passaggio, da Sud verso Nord.
La macchina della finta accoglienza, quella che segue la filosofia scolpita da Buzzi in una delle intercettazioni («dove ce stanno 800 immigrati ce ne stanno mille, tanto chi li conta?») cerca periferie nascoste per le proprie sale d'attesa lontano dagli sguardi di chi s'indigna all'ora del Tg. Si chiamano Castelnuovo di Porto, Mineo, Gradisca. Nelle nuove Lampeduse s'impiglia una parte dei migranti, quella che ha la sventura, una volta tratta in salvo dal mare, di non sfuggire ai pur distratti «controllori».
«La polizia insisteva per prenderci le impronte, noi piangevamo, alla fine ci hanno lasciato andare», racconta una mamma siriana, arrivata a Milano da Crotone, dopo aver evitato l'identificazione. Nel capoluogo lombardo, ingiustamente marchiato come capitale «dell'egoismo del Nord», c'è il centro di smistamento di chi ce l'ha quasi fatta. Qui almeno non ci sono container, il rifugio è in un'ex scuola, gestito con dignità dai volenterosi di Progetto Arca. Mentre la madre siriana racconta, squilla il cellulare. All'altro capo è il taxista-scafista che li accompagnerà per l'ultimo tratto, fino in Germania. Altro che accoglienza: sono in pochi a voler restare qui. Tanti altri li tratteniamo a forza nei recinti dell'Italia-campo profughi per dar lavoro alle cooperative della solidarietà che ingrassa. Ha ragione chi al governo grida che non è un'invasione.
Ma proprio per questo dovrebbe vergognarsi di una politica di cui l'Europa è complice: nascosti dietro la bandiera della falsa accoglienza si gestisce tutto con la logica di una lucrosa emergenza. Che trasforma l'Italia in un bivacco di, disperati, manipoli.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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