Dopo quarantadue anni di politica, quattro partiti (Dc, Ppi, Margherita, Pd) e sette legislature alle spalle tra Roma e Strasburgo, Rosy Bindi sente che il «fuoco» arde un po' meno e preannuncia il ritiro, prima che sia il Pd a chiederglielo. Sempre meglio andarsene che essere accompagnati alla porta, come succederebbe nel caso - probabile - che il prossimo segretario a fare le liste del Pd fosse Matteo Renzi, che già la scorsa volta l'avrebbe lasciata volentieri a casa fosse dipeso da lui e non da Bersani («Niente contro Rosy Bindi, ma sta in Parlamento da prima della caduta del Muro di Berlino» sfotteva allora il sindaco rottamatore). «Finita questa legislatura lascerò il campo», annuncia la Bindi al Fatto, un pensiero già espresso tempo fa («Non credo che Renzi pensi a ricandidarmi, questa è la mia ultima legislatura» disse in tv) dopo aver forzato le regole interne del Partito Democratico nel 2013 per ottenere una deroga al limite dei tre mandati stabilito dallo statuto Pd e sedersi di nuovo a Montecitorio. Significa che la pasionaria di Sinalunga, prototipo della «cattocomunista» per il centrodestra che non l'ha mai digerita (come peraltro una bella fetta del Pd) si dedicherà ad altro nella vita? Difficile. Intanto, c'è ancora la legislatura da terminare, scadenza nel 2018, e la Bindi occupa una poltrona nient'affatto secondaria: presidente della commissione Antimafia. Poi sì, vuole viaggiare («Sono stata in tutti gli aeroporti del mondo, girato tanto ma visto poco»), tornare agli studi di teologia (da ragazzina diceva la Messa da sola e sognava di diventare prete), ma aggiunge: «Non mi ritirerò a vita privata, Maria Eletta Martini e Tina Anselmi finché hanno potuto si sono impegnate. E io vedo un gran bisogno di formazione alla politica e di ricostruzione delle reti associative».
Dunque, più che un ritiro, la Bindi aspira a collocarsi tra le riserve della Patria, a bordocampo ma pronta a tornare per un incarico istituzionale all'altezza della sua lunga esperienza: da consigliera comunale nel 1975, a parlamentare europeo, poi due volte ministro, sei volte deputato, vicepresidente della Camera, presidente del Pd, infine numero uno dell'Antimafia. Il passo indietro, anzi, può servire a guadagnare un profilo super partes, utile quando in palio ci sono incarichi di alto livello dove la casacca politica non dev'essere troppo accentuata, dal Quirinale in giù. Certo, è più che prematuro immaginare la partita del dopo-Mattarella (scadrà tra cinque anni), ma si attende da tempo la prima donna capo dello Stato, e una figura come la Bindi, con radici nel Pd ma buoni rapporti con gli scissionisti di Mdp e la sinistra non renziana, e in più la militanza cattolica, potrebbe anche ambire ad entrare in una rosa di nomi per il Colle.
Da presidente della commissione parlamentare Antimafia, poi, la Bindi si è già mossa in modo autonomo, quasi da cripto-grillina. Del resto il M5s l'ha votata alla presidenza dell'Antimafia, ed è arrivata persino a difenderla dagli stessi dem, come quando il senatore grillino Giarrusso denunciò un tentativo nel Pd di «far dimettere la presidente Bindi presentando una mozione, sarebbe una scorrettezza enorme e una tale richiesta avrebbe il nostro voto contrario e la nostra ferma opposizione».
Le sue ultime battaglie in effetti sono più affini ai Cinque stelle («Una forza politica che si è presentata con il vessillo della questione morale, di cui tutti sappiamo quanto ce ne sia bisogno in questo nostro Paese», ha detto) che al Pd. Il sequestro degli elenchi degli iscritti alle logge di Calabria e Sicilia, e poi la richiesta dell'elenco degli iscritti al Grande Oriente d'Italia.
Poi, l'indagine sulle connessioni mafia-calcio («A noi basta e avanza sapere che le mafie arrivano persino alla Juventus»). E quindi la guerra al governatore De Luca, nemico a pari merito suo e del M5s. Altro che rottamazione, c'è un sacco di lavoro per Rosy.
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