«Noi affermiamo che la violenza non esiste come ente a sé stante». Non è cioè, sempre cattiva. Dipende da chi colpisce e da qual è la vittima. Se a menar le mani è un antifascista, allora la prepotenza diventa un (giusto) mezzo da mettere in pratica secondo un preciso rituale: colpendo alle spalle i nemici. L'articolata giustificazione della violenza antagonista è contenuta in un piccolo «manuale del picchiatore» pubblicato da «Bologna Antifa», costola cittadina del blog emiliano che nei giorni scorsi ha diffuso online uno schedario (con nomi e indirizzi) di obiettivi e avversari politici. Marco Lisei, capogruppo in consiglio comunale di Forza Italia, ha già sporto denuncia contro questo libretto «dall'elevata portata offensiva». Sette brevi pagine a domanda e risposta dal titolo «Considerazioni sulla violenza». Un trattato per sciogliere «il nodo» sulla prepotenza politica dopo il «sanzionamento» (sic!) dell'esponente di Forza Nuova a Palermo, pestato a sangue da un gruppo di attivisti di sinistra a pochi giorni dalle elezioni. I rivoluzionari, infatti, lamentano una «continua delegittimazione dell'antifascismo militante». Chi ne critica i tafferugli, le vetrine rotte e i pestaggi di avversari o poliziotti, insomma, si sbaglia. E di grosso. Perché mentre «i fascisti fanno della violenza un feticcio da adorare», gli antagonisti sono legittimati a praticarla per costruire un mondo «libero» da razzisti, sessisti e capitalisti. «Ci sono azioni violente - si legge nel dossier - che possiamo ritenere giuste a livello strategico e altre no». Il «problema» non è l'uso della forza, ma «i suoi obiettivi». La ritengono uno strumento utile per ottenere una «vita non fascista», per «cancellare queste idee dall'universo intero», un modo per «non dover perdere tempo per l'intera esistenza con ste mer...». Tradotto: «Si levino di torno o li leviamo noi». Perché «la lotta antifascista non è uno sport a cui applicare una qualche forma di fair play». La parte più interessante del libello, però, è quella con le indicazioni pratiche per la guerriglia. Se infatti la prepotenza è giustificata quando viene immolata sull'altare dei centri sociali, allora gli attivisti devono sapere come confrontarsi in caso di un raid punitivo. Regola fondamentale: «Non subire troppe perdite». Come fare? Semplice: per «produrre una pratica antifascista che limiti il più possibile i danni (verso di noi) e massimizzi i risultati» l'antagonista perfetto deve «scappare quando non si è sicuri o si è colti alla sprovvista». Molto coraggioso. Nel caso in cui lo scontro non sia rinviabile, mai affidarsi ad un maschio uno contro uno: l'antifascista deve «affrontare in superiorità numerica o colpire alle spalle il nemico, umiliare e usare l'inganno, svelare i punti deboli dell'avversario. Va bene tutto, purché l'obiettivo venga raggiunto il più facilmente possibile». Chiaro, no?
In fondo il trattato dichiara senza mezzi termini che «è meglio un compagno che sta bene che uno in carcere, in ospedale o sottoterra per qualsiasi questione che rimandi al coraggio, alla lealtà e ad altre inezie morali». Impavidi, non c'è che dire.
E pensare che sono loro stessi a considerare ridicoli i «fascisti» (cioè chiunque non la pensi come loro) che si fanno «proteggere dalle guardie» o che «scappano impauriti per poi mettersi a frignare sui media se gli arrivano due schiaffi». Il ragionamento è piuttosto contorto, ma non è un problema. L'importante è affermare il principio che la violenza antagonista è sacra. E sempre legittima.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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