I n effetti, perché lui no? Escono scannacristiani, mafiosi, narcotrafficanti, rapitori di donne e bambini. Quindi non c'è niente di strano se anche Cesare Battisti, terrorista dei Pac, uno con quattro ergastoli sulla coscienza, chiede di lasciare il carcere dove è chiuso da poco più di un anno: anche lui, come i boss della criminalità organizzata, teme di essere contagiato dal coronavirus. Avendo compiuto i sessantacinque anni, ritiene con buon motivo di essere un soggetto particolarmente a rischio. E quindi ha depositato anche lui istanza di arresti domiciliari, ansioso di seguire l'esempio dei 376 criminali di diverse estrazioni cui la pandemia ha inaspettatamente dischiuso le porte della cella. L'istanza è stata avanzata per conto di Battisti dal suo difensore, l'avvocato milanese Davide Steccanella, al tribunale di sorveglianza di Cagliari, competente sul carcere di Oristano che dal 19 gennaio scorso, quando venne sbarcato in Italia, è la nuova casa del leader dei Proletari armati per il Comunismo, la banda di terroristi dell'ultrasinistra che alla fine degli anni Settanta si era specializzata nelle esecuzioni a freddo di commercianti e uomini delle forze dell'ordine. Il curriculum criminale di Battisti, secondo il suo difensore, non è un buon motivo perché l'anziano detenuto debba essere escluso dalla chance offerta agli altri. «Il mio assistito - ha spiegato Steccanella all'agenzia Agi - soffre di diverse patologie». In realtà, il legale rivela anche che Battisti è in isolamento «e non può vedere altri detenuti perché in questo carcere non ci sono altri reclusi classificati come lui»: quindi, a ben vedere, i rischi di contagio sono piuttosto bassi, visto che gli unici contatti umani Battisti li ha con la polizia penitenziaria, a distanza e protetti. Qualche rischio semmai Battisti potrebbe correrlo se uscisse, trasferendosi verosimilmente a casa della figlia che in questi mesi gli ha fatto regolarmente visita nel penitenziario sardo. Ma l'importante, comunque, è uscire.
A dare all'ergastolano qualche speranza di successo è l'autorità cui spetterà la decisione: il tribunale di sorveglianza di Cagliari, lo stesso che mettendo fuori il boss del clan dei Casalesi Pasquale Zagaria ha scatenato una ondata di indignazione. È vero che Zagaria aveva un fine pena di soli sette anni, e non il «fine pena mai» che compare sul fascicolo carcerario di Battisti. Ma dalla sua l'ex primula rossa ha qualche argomento in più: il terrorismo rosso è estinto da tempo, quindi Battisti sostiene di non poter essere in alcun modo considerato un pericolo per la società.
Per evitare che tutto ciò accada il centrodestra si prepara a dar battaglia e promette barricate mentre, proprio con l'obiettivo di mettere un freno alle scarcerazioni facili, come quelle avvenute nei giorni scorsi e di cui punta a beneficiare anche Battisti, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha portato ieri all'esame del Consiglio dei ministri un nuovo provvedimento. A parole il decreto garantisce che non verrà «toccata minimamente l'autonomia della magistratura». Nei fatti, si tratta di una robusta invasione di campo nelle facoltà dei tribunali di sorveglianza, che Bonafede considera i principali responsabili della ondata di liberazioni in nome del coronavirus.
Già col decreto precedente il ministro aveva imposto ai giudici un condizionamento non da poco, sottoponendo tutti i provvedimenti per boss e narcos al parere preventivo delle Procure antimafia. Ora viene introdotto l'obbligo di rivedere entro quindici giorni i provvedimenti già emessi e poi una volta al mese. Un carico difficilmente sostenibile per tribunali già intasati.
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