Burocrazia e vecchi protocolli frenano pillole e monoclonali. "Sprecati i farmaci anti Covid"

Sono efficaci se dati al paziente entro cinque giorni dai primi sintomi. Ma cinque giorni per la burocrazia sanitaria sono stretti, anche in tempo di pandemia

Burocrazia e vecchi protocolli frenano pillole e monoclonali. "Sprecati i farmaci anti Covid"

Avrebbero potuto evitare gran parte dei ricoveri in ospedale. Ma i farmaci antivirali non sono mai stati utilizzati granché. Come mai? Perchè non si riesce a somministrarli in tempo. Sono efficaci se dati al paziente entro cinque giorni dai primi sintomi. Ma cinque giorni per la burocrazia sanitaria sono stretti, anche in tempo di pandemia. Troppi passaggi, troppe autorizzazioni e chi si è ammalato di Covid e potrebbe guarire in pochi giorni, non riesce ad accedere alle cure. E finisce per essere ricoverato. Il risultato del tampone ufficiale non arriva prima di 24 ore (in alcune regioni ci vogliono più di tre giorni), il medico di base o l'unità Usca devono formulare una prima diagnosi per capire se il paziente è adatto al trattamento e allertare il reparto di Malattie infettive dell'ospedale, l'infettivologo deve valutare il quadro clinico e autorizzare la ricetta. E solo dopo il paziente potrà avere la sua scatola di medicinali fornita direttamente dalla farmacia ospedaliera. Accade anche per la pillola di Pfizer arrivata ieri: è vero che è il primo farmaco orale e si può prendere a casa. Ma perché ci arrivi, a casa, i passaggi sono lenti e farraginosi.

«Sarebbe diverso se a somministrare i farmaci fosse il medico di base - sostiene Francesco Broccolo, virologo dell'università Bicocca e direttore scientifico del Cerba - È fondamentale sburocratizzare i protocolli per slegare le mani al medico di medicina generale, senza che debba inviare il suo paziente al reparto specializzato. In 72 ore non si riesce a fare tutto cioè. Basterebbe anche un teleconsulto tra medico e reparto, sarebbe immediato e abbrevierebbe i tempi. Altrimenti rischiamo di far naufragare il piano farmaci». Gettando all'aria non solo un'opportunità (e un diritto) di cura ma anche un sacco di soldi, compresi quelli investiti per acquistare i 600mila trattamenti della pillola di Pfizer, di cui è disponibile la prima fornitura di 11.200 trattamenti.

Stesso iter complicato per i monoclonali. Ne sono state acquistate 150mila dosi e utilizzate appena 45mila (di cui solo 5.500 di Sotrovimab, l'unico efficace contro Omicron). Inizialmente, quando l'Italia aveva investito 400 milioni per l'acquisto, si pensava di poter effettuare oltre mille cicli al giorno. Le prescrizioni non sono state più di un centinaio al giorno e parte dei 40mila trattamenti del primo lotto di Lilly e Regeneron (i primi ad arrivare in Italia) sono rimasti nei frigoriferi, con il rischio di restare (e scadere) lì.

L'ideale, aveva spiegato Aifa, è somministrare i monoclonali entro il terzo giorno dall'insorgenza della malattia. Ma come è possibile fra tampone e ricovero? E soprattutto tenendo conto che non tutti gli ospedali utilizzano i monoclonali? Da quando li abbiamo a disposizione - cioè dalla seconda ondata di virus - sono state somministrate 40mila dosi di monoclonali, di cui la metà in sole quattro regioni: Lazio, Lombardia, Veneto e Toscana.

Il sistema sanitario «ordinario» ha messo il freno a mano alle misure «emergenziali» di Aifa che - così come Ema - ha cercato di abbreviare in tutti i modi gli iter di approvazione dei medicinali.

«Mentre sui vaccini - spiega Broccolo - c'è stata una politica proattiva, sui farmaci questa volontà è mancata. I protocolli clinici sono stati messi a punto ma sono mancati quelli operativi. Per di più non si è tenuto conto delle diverse capacità organizzative da una regione all'altra».

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