Avanti un altro, avanti il prossimo. Dopo l'Uomo del Colle che l'ha inventato, permettendogli tutto (o quasi), Napolitano, ecco il ministro «di ferro» nel quale riponeva ogni stima e fiducia. «Ve ne accorgerete che tipo tosto è», ebbe a dire nominandolo ambasciatore italiano alla Ue, giusto per lo sfizio di irritare feluche, politici e partner europei. Due mesi dopo lo volle con sé, allo Sviluppo economico (legato a Montezemolo, ha lavorato per anni in Ferrari). Carlo Calenda molla Renzi, dunque. E se non è l'afflosciarsi del Giglio magico poco ci manca. «Andare alle elezioni a giugno o peggio ad aprile rappresenta a mio avviso un serio rischio per la tenuta del Paese: abbiamo troppi impegni urgenti, lo spread potrebbe impennarsi. E poi non possiamo avere un governo dimissionario per il G7 di Taormina». Una lenzuolata d'intervista al Corsera, «a titolo personale»; il dado è tratto, il dente che duole estratto. D'altronde qualcuno doveva pure dirglielo, a Matteo, prima o poi. Meglio che sia stato proprio Calenda, malignano, prefigurandolo in concorrenza con il premier Paolo Gentiloni invece che in combutta com'è (un'intervista del genere non si fa mai in modo «avventato»). Al punto che quando Gentiloni a metà giornata deve ricorrere a formali precisazioni («La posizione del ministro Calenda è personale, certo non impegna il governo e il suo presidente»), appare evidente come Palazzo Chigi non sia intenzionato a restare sulla graticola come San Lorenzo, o come San Sebastiano al palo infilzato dalle frecce renziane. Si gioca così una partita per interposta persona, tanto più che il premier nella stessa nota ricorda - excusatio non petita - che «la durata del governo per definizione non la decide il capo del governo, la decisione spetta al Parlamento, al Presidente della Repubblica e alla dialettica tra le forze politiche». Appunto, le forze politiche. Esulta Forza Italia: sia Romani che Brunetta trovano le parole di Calenda «lucide» e ne condividono il no a «salti nel vuoto». Gongolano gli alleati di Ncd, ancor di più forse la sinistra dem. Da Gotor a Mucchetti si leva un peana per Calenda e il suo appello «da accogliere senza se e senza ma». Il vento è cambiato, lo si percepisce a naso. Renzi è sempre più solo, sempre più messo a nudo nella sua dissennata gestione di grazie (e fortune) ricevute. Processo già segnalato all'indomani del referendum, aggravato dal comportamento irragionevole tenuto fin dalla notte del tracollo. Strappi e guasconate: il problema non è perdonarle o giustificarle, bensì che hanno fornito la misura esatta dell'Uomo negli ambienti che contano. La gestione della crisi, le consultazioni parallele a Palazzo Chigi, la corsa sguaiata verso le urne, che lo associa ad alleato improbabile di Grillo, Salvini e Meloni (gli unici ad chiedere le dimissioni di Calenda). Il bulletto di provincia - come ora persino certi troppo recenti ex leccapiedi non disdegnano di definirlo - pare suonare sempre sullo stesso spartito e mostra di non avere repertorio politico ampio.
Anche perché le elezioni non risolverebbero nulla, se non forse l'ultimo desiderio del condannato: puntare d'azzardo mettendo assieme Palazzo Chigi e Pd, ora che il primo l'ha perduto e il secondo è chiaramente scoppiato. Un sistema proporzionale ne sancirà una fine o il superamento già evocato da Prodi e D'Alema, dando coraggio alle «anime» vive o morte che lo compongono.
Soltanto un segretario inclusivo e delicato nei modi potrebbe proporsi per il salvataggio del Pd. Renzi non lo è, questo obbliga lui alla puntata «forte». Gli altri no: preferiscono, con facile battuta, rinviare alla Calenda (greca).
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