Cronache

Cade nella pausa caffè: non è infortunio sul lavoro

La Suprema corte ha accolto il ricorso dall'Inail. "È un rischio scaturito da una scelta arbitraria"

Cade nella pausa caffè: non è infortunio sul lavoro

Il caffè durante l'orario di lavoro rischia di diventare un ricordo. L'amata pausa, uso e spesso abuso della maggior parte dei dipendenti pubblici e non, è in pericolo.

Una sentenza della Corte di Cassazione ha deciso, infatti, che chi si fa male mentre si allontana per andare al bar non ha diritto a invalidità per malattia. Gli ermellini hanno accolto il ricorso dell'Inail contro un indennizzo e invalidità del 10% a favore di un'impiegata della Procura di Firenze, che si era rotta il polso cadendo per strada mentre, autorizzata dal suo capo, era uscita insieme a due colleghe per andare a prendere il caffè all'esterno dell'ufficio, poiché lo stabile dove prestava la sua attività non aveva un punto di ristoro.

Rosanna aveva vinto in primo e secondo grado davanti a Tribunale e Corte di Appello di Firenze e aveva ottenuto dall'Inail l'indennità di malattia assoluta temporanea e l'indennizzo in relazione all'incidente avvenuto quella mattina di luglio del 2010. A undici anni di distanza dall'accaduto, però, e dopo aver atteso dal 2015 la fissazione dell'udienza davanti alla suprema corte chiamata a valutare la decisione in secondo grado emessa nel 2014, l'impiegata non solo ha perso il diritto a essere risarcita, ma è stata condannata a pagare 5.300 euro di spese legali e di giustizia.

«Non ha diritto alla tutela assicurativa chi affronta un rischio scaturito da una scelta arbitraria e mosso da impulsi nonché per soddisfare esigenze personali crei e affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente all'attività lavorativa - scrivono infatti i giudici - con ciò ponendo in essere una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento di infortunio. Pertanto è da escludere la indennizzabilità dell'incidente subito dalla lavoratrice durante la pausa al di fuori dell'ufficio giudiziario ove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè».

Gli ermellini ci tengono a sottolineare che la tazzina di caffè è un bisogno «procrastinabile e non impellente». E poco conta che a dare il permesso sia stato il «capo», come faceva anche con gli altri impiegati dell'ufficio.

«È del tutto irrilevante la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro in ordine a tali consuetudini dei dipendenti - scrive la sezione Lavoro della Cassazione - non potendo una mera prassi o, comunque, una qualsiasi forma di accordo tra le parti del rapporto di lavoro, allargare l'area oggettiva di operatività della nozione di occasione di lavoro'». «Infatti - conclude la Corte - non può essere ricondotta a occasione di lavoro' l'attività, non intrinsecamente lavorativa e non coincidente per modalità di tempo e di luogo con le prestazioni dovute, che non sia richiesta dalle modalità di esecuzione imposte dal datore di lavoro o in ogni caso da circostanze di tempo e di luogo che prescindano dalla volontà di scelta del lavoratore».

Quindi Rosanna quel caffè l'ha pagato davvero caro.

Commenti