Politica

La "cancel culture" a targhe alterne

La "cancel culture" a targhe alterne

L' ondata di russofobia che ha invaso l'Italia e gran parte dell'Occidente, nelle sue forme più parossistiche è stata velocemente rispedita al mittente da gran parte dell'opinione pubblica. Ed è un ottimo segnale. La «cancel culture» è innanzitutto un orrore lessicale, un ossimoro. La cultura dovrebbe, per definizione, aggiungere, certamente non sottrarre e cancellare. La mania dello sbianchettamento ha la ferocia distruttiva dell'Alzheimer, con l'aggravante della selettività: si dimentica a comando solo quello che è scomodo per una certa parte politica. Il politicamente corretto ha smussato buona parte delle intelligenze più acuminate, portando a un rincoglionimento di massa. Basterebbe questo esempio per far calare il sipario: nei giorni scorsi si leggevano sui social battute sull'ipotesi di cambiar nome all'insalata russa e alle montagne russe. Ma la cancel culture supera la fantasia e si autodistrugge, si cancella da sola: negli Usa alcuni pazzi vorrebbero ribattezzare i cocktail altamente putiniani «white russian, «Moskow mule» e la caipiroska. Una roba da ubriachi, appunto. Tuttavia il caso della censura (poi ritirata) nei confronti del corso su Dostoevskij è stato talmente clamoroso e imbecille da aver inorridito tutti. Però è interessante notare come tra quelli che ora s'indignano - giustamente, e lo facciano più spesso! - ci sono alcune categorie che sprofondano in evidenti contraddizioni. 1) I ritardatari. Cioè coloro i quali, dopo aver per anni impugnato la gomma per cancellare tutto quello che non andava loro a genio, adesso, di fronte al dileggio di un mostro sacro, fanno le verginelle e denunciano la barbarie della rimozione culturale. Meglio tardi che mai, ma vedremo la prossima volta, quando la vittima avrà la colpa di essere un po' meno universale, da che parte staranno. 2) I propalatori di balle. La cancel culture è una stretta parente delle fake news. La prima riscrive il passato, la seconda inquina il presente. E fa sorridere che chi giustifica l'invasione in Ucraina, minimizza le violenze russe e cerca ossessivamente capri espiatori a Washington per giustificare Mosca (vecchio vizio rosso), poi si stracci le vesti per il caso Dostoevskij.

Che è solo l'ultima declinazione di quei metodi dittatoriali verso i quali si sono sempre genuflessi: rimozione e bugie.

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