Barcellona La señora Montse, classe 1939, che ricorda il tallone franchista sulla vita della sua famiglia, ha portato una tortilla di patate che è pura medicina per lo stomaco di alcuni dei quasi trecento accampati a Plaça de la Universitat, davanti al principale ateneo della città. Non assomigliano a soldatini repubblicani, né a Indignati. Sono un misto di tutto, dall'anarchico al punk. Da un mese mangiano schifezze, ma resistono, benedetti da un autunno tiepido che alla fine li caccerà via. Hanno piantato tende e alzato stortissime catapecchie con le cassette della frutta e tutto ciò che, sottratto al servizio di nettezza, arreda.
Sono la risposta pacifica alla sentenza del primo ottobre del Tribunale Supremo che ha condannato i politici e funzionari autori del golpe in salsa catalana. Sono la risposta anarchica, che non riconosce né Madrid, né la Spagna. Tantomeno il suo re Felipe VI, cui martedì hanno bruciato le sue immagini in piazza. Visti così, indigenti e felici per qualche pietanza calda regalata dai vecinos, sembrano innocui campeggiatori, un po' barboni e fricchettoni, con una rivoluzione troppo grande che non sanno condurre, ma hanno il potere di decidere le elezioni di domani. Oggi, nel giorno dedicato alla riflessione, col divieto di comizi, è in programma il blocco di Barcellona, una maxi manifestazione che potrebbe richiamare appartenenti alla destra spagnola, gli unionisti più violenti, e allora a Barcellona, questa sera sarà di nuovo guerriglia e fuoco, a poche ore dalle democratiche urne.
Ma chi sono questi ragazzi, uomini e donne, anziani, nostalgici repubblicani che non si lasciano fotografare e si chiamano Tsunami Democràtic? «Qui c'è gente che vota Podemos, ma anche Sánchez e il Partito Popolare», spiega Ines, 22 anni, al Giornale «Non ci siamo aggregati per convinzioni politiche, solo ci accomuna la voglia di vivere in una repubblica di Catalogna, libera e indipendente, dove nessuno ci impone le sue leggi e manda la sua polizia a spararci le palle di gomma se protestiamo». Del resto come darle torto quando dice: «Siamo figli della Catalogna, dalle elementari all'università abbiamo studiato in catalano. Parliamo, protestiamo, sogniamo in catalano», con buona pace del bilinguismo scritto nella Costituzione. Tre decadi di continua campagna secessionista sono entrati nel Dna di questa generazione cresciuta nell'odio per Madrid. «Voi giornalisti - mi arringa Jordi-Mohamed con la maglia di Messi, figlio d'immigrati marocchini - dovete scrivere che siamo un popolo occupato da un Paese straniero (la Spagna, ndr)».
Nelle stradine dell'acampada di Barcellona hanno stilato una lista di divieti: «Vietato bere alcolici (al massimo birra, ma non dopo mezzanotte); vietato organizzare feste con musica troppo alta; vietato fare sesso (anche se una farmacia ha distribuito varie scatole di preservativi)». «Dobbiamo darci delle regole o finisce come a Woodstock».
Col pesante odore d'erba nell'aria, si sono dimenticati il bando alle sostanze psicotrope, in una città che ha le più alte percentuali di tracce di cannabis nelle acque reflue. Levategli tutto ai rampolli anarchici, ma non toccategli lo spinello.
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