Più che una correzione di rotta, si tratta di una vera e propria strambata. Un deciso cambio di passo che in Lega erano in molti a suggerire da tempo a Matteo Salvini. Consigli, in verità, di cui l'ex ministro dell'Interno non si è molto curato. Almeno fino al pomeriggio di lunedì, quando ha dovuto fare i conti con il secondo blocco di proiezioni e mettere definitivamente da parte ogni residua speranza di successo. Anzi, alla delusione della Toscana si è andato via via sommando il netto arretramento delle liste della Lega su tutto il territorio nazionale. Il paragone con le Europee del maggio 2019 è impietoso, al netto del fatto che il confronto è evidentemente su dati non omogenei. Il Carroccio, infatti, in poco più di un anno crolla dappertutto: in Campania passa dal 19,2% al 5,6; in Liguria dal 33,8 al 17,1; nelle Marche dal 37,9 al 22,4; in Puglia dal 25,2 al 9,6; in Toscana dal 31,4 al 21,8.
Un tonfo così rumoroso da convincere Salvini che è forse arrivato il momento di cambiare approccio e di tarare una comunicazione che è restata ancorata al pre Covid, quando paure e timori erano altri e quando l'Europa non aveva ancora messo a disposizione i fondi del Mes (36 miliardi) e soprattutto del Recovery fund (209 miliardi). Ed è proprio questo il fronte che inizia a preoccupare seriamente il leader della Lega, ben consapevole che le elezioni anticipate sono ormai un miraggio lontano. E che nel prossimo anno il governo guidato da Giuseppe Conte potrà gestire una quantità di risorse paragonabili solo a quelle arrivate nel Dopoguerra con il Piano Marshall. Soldi che saranno distribuiti sotto forma di aiuti, sussidi e mance, con tutti - amministrazioni di centrosinistra e di centrodestra - che faranno il possibile per portare a casa qualcosa. Restare fuori da questa partita significa condannarsi all'irrilevanza, soprattutto per un partito - in privato lo ha ripetuto spesso e in diverse occasioni Giancarlo Giorgetti - che nonostante i tentativi di allargarsi al Sud resta fortemente ancorato al Nord e al suo ceto imprenditoriale e produttivo. Ecco perché, già lunedì a tarda sera saltellando da una trasmissione tv all'altra, Salvini ha ribadito più volte la sua disponibilità a confrontarsi con il governo sul Recovery fund. Insomma, dopo aver attaccato per mesi sul Mes e sul Fondo di recupero («sono una fregatura!», recitavano i meme leghisti con la gigantografia di Salvini), l'ex ministro dell'Interno sembra sceso a più miti consigli. Anche perché è altamente probabile che su questo fronte Luca Zaia cercherà di trattare in proprio per il «suo» Veneto, trovando un interlocutore - Conte - ben felice di non doversi sedere al tavolo con l'odiato Salvini. Non è un caso che ieri il premier ci abbia tenuto a dire che il confronto sul Recovery fund sarà non solo con il leader della Lega ma «con tutti gli esponenti delle opposizioni».
Il punto, però, è se davvero Salvini sarà capace nei prossimi trenta mesi di svestire i panni della propaganda da comizio e sedersi al tavolo. Perché è questo l'unico modo per giocare una partita che - almeno ad oggi - non lascia intravedere elezioni fino al 2013. Tra lunedì sera e ieri qualche timido segnale è arrivato, anche se accompagnato dalla solita scivolata dei dichiaranti leghisti che invitavano Sergio Mattarella a «prendere atto del Sì al referendum e sciogliere le Camere». Uno scenario dell'inverosimile che non fa altro che urtare la suscettibilità di un Colle con cui Salvini in questi anni ha avuto molti più bassi che alti.
Meglio, invece, sarebbe provare a cambiare passo, puntando magari su quello che sarà il tema del prossimo anno: dove, come e perché spendere i soldi dell'Europa, magari proponendosi come sentinelle di eventuali mance elettorali e sprechi.
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