A volte occorrono notti gravide di tempesta, per veder nascere una stagione nuova. L'alba ha il volto di Maria Elisabetta Alberti Casellati, prima donna presidente nei 157 anni di storia del Senato italiano o, se si preferisce, nei 70 anni di quello repubblicano, che scoccano il prossimo 8 maggio. Un bel regalo di compleanno per l'istituzione, che sceglie una quasi coetanea per rinnovarsi e ripartire. «Il progresso impone la capacità di innovare, riformare, mettere in discussione le certezze del passato per poter governare il cambiamento», dirà l'emozionata presidente nel suo primo discorso, in barba a chi l'ha sempre vista come una competente e agguerrita avvocatessa di sangue freddo («donna di piglio fermo e idee chiare», la dipinge il governatore Zaia), sempre restia a far scorgere anche soltanto uno spicchio del proprio batticuore. Invece accade anche questo, complice quel «momento storico e traguardo straordinario» (come gioiscono Annamaria Bernini e Alessandra Gallone, tra le prime senatrici a congratularsi) che fino all'altra sera sembrava impossibile. Impeccabile nel sobrio tailleur blu oltremare, la Casellati segue alla perfezione la ritualità e sembra incarnare nel profondo quel «senso delle istituzioni» (lo dirà Legnini, vicepresidente del Csm) quasi come se fosse ci fosse nata, in quella Bomboniera del Palazzo. Per di più l'elezione al primo colpo, quando tuoni e fulmini del centrodestra sono belli e diradati, con 240 voti e pochissime defezioni (segno che anche i temuti grillini sanno stare al gioco e rispettare i patti, mentre i 54 voti del Pd ne testimoniano tutta la marginalità) fanno sperare in una legislatura che si avvii a dispetto d'ogni ostacolo. Come avrebbe detto un evanescente senatore di Firenze che ha reso il Pd vapor acqueo, alla faccia dei gufi. Così, se il tema delle riforme sarà «centrale» e «la legittimazione comune tra le forze politiche è condizione essenziale per un buon governo», la Casellati avrà qualche buona ragione per dirsi ottimista persino sulla nascita del nuovo esecutivo: vedendo, nel largo consenso ottenuto, «un elemento di pacificazione e un buon viatico». Lo ripeterà nella visita di garbo istituzionale all'inquilino del Quirinale e poi a Palazzo Grazioli, dove si fermerà per un saluto al suo mentore in politica, Silvio Berlusconi.
Tutto cambia in una mattinata solare, aperta da un Bossi ancora deluso per lo strappo salviniano: «Se fa saltare il Veneto e la Lombardia, lo impiccano in piazza Centrale a Milano, come il suo amico Mussolini». Ma via via che appariva chiaro come l'esplosione a catena non sarebbe convenuta a nessuno, i colpi di scena declinavano nella ritualità più assodata. Paolo Romani rendeva pubblico il proprio passo indietro («mi sono liberato da un peso») e, dopo aver votato, lasciava l'aula non senza un saluto al presidente Napolitano. L'emiciclo tornava a essere un brulicare di baci e carezze. Svettava l'elegante figura della Bernini che, pur sentendosi un po' «usata» nelle fasi più bollenti delle trattative, ritrovava il sorriso con Salvini sui banchi della Lega. «Grazie al mio rapporto sempre limpido con Berlusconi - racconterà più tardi - ho superato la difficoltà del momento».
La pronta rinuncia a scendere in campo ne fa ora la più accreditata per la guida del gruppo azzurro, anche se fino alla partita che si gioca da domani ci sono ancora 24 ore di festa per un Senato che si fa donna. Madama è tornata a Palazzo, e ora la fa da padrona.
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