La Cassazione: «Il processo a Daccò è da rifare»

Milano Cinque anni di galera già scontati, ma ora il processo è da rifare: perché Piero Daccò, amico di lunga data di Roberto Formigoni e anche per questo finito nei guai, potrebbe essere stato condannato per un reato mai esistito.

Ieri la Cassazione ha disposto che venga celebrato un nuovo processo a Daccò per la bancarotta del San Raffaele, l'ospedale milanese di cui era consulente. La condanna di Daccò a nove anni è ormai definitiva: peccato che in un altro processo per la stessa vicenda, celebrato anch'esso a Milano, altri giudici hanno assolto quasi tutti gli imputati «perché il fatto non sussiste». Anche questa condanna è ormai definitiva: due verità giudiziarie opposte e inconciliabili.

Per casi di questo genere, il codice prevede un rimedio preciso: la revisione del processo, un nuovo giudizio che rimetta in sintonia le decisioni. I difensori di Daccò, Gabriele Vitiello e Massimo Krogh, avevano chiesto la revisione alla Corte d'appello di Brescia, che però nel settembre scorso respinse la richiesta. Ma i legali hanno fatto ricorso in Cassazione, e ieri hanno ottenuto piena vittoria: annullata la decisione bresciana, Daccò ha diritto a un nuovo processo. Non si farà nè a Milano nè a Brescia, dove i giudici si sono già espressi su di lui, ma a Venezia.

Daccò, dopo una interminabile carcerazione preventiva (motivata, secondo lui, dall'obiettivo di spingerlo a collaborare) e dopo la condanna definitiva, ha ottenuto

nel gennaio scorso gli arresti domiciliari. Nel frattempo è stato condannato a altri nove anni nel processo per il sistema sanitario lombardo. Il carcere subito ingiustamente potrebbe venire scalato dalla nuova sentenza.

LF

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