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Il Cavaliere e il Colle: dai duelli infiniti a desiderio sfumato

Da premier si scontrò con Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Il rispetto con Mattarella. E quell'elezione sfiorata all'inizio del 2022

Il Cavaliere e il Colle: dai duelli infiniti a desiderio sfumato

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E conta, riconta, e metti questo, e togli l'altro, e quello forse, chissà, magari si astiene, hai visto mai. Ma poi alla fine niente da fare, calcola che ti ricalcola sempre 17 voti mancavano al quorum. Così Silvio Berlusconi, che per qualche giorno ci aveva sperato davvero, in quel febbraio del 2022 dove il kingmaker Matteo Salvini si agitava parecchio tritando nomi su nomi, ha capito che per lui il Colle sarebbe rimasto solo un sogno. Non che ci avesse mai tenuto granché: belli i corazzieri, sfarzosa la residenza dei Papi, però il suo posto era Palazzo Chigi, la tolda di comando. Ma insomma, per come si erano messe le cose, al termine di una carriera trentennale, dopo la riabilitazione giudiziaria, il Cav pensava di meritare il riconoscimento.

Invece. Presidente del Consiglio, ben quattro volte, presidente di Forza Italia, del Popolo delle libertà, del Milan, del Monza, di Mediaset, di Fininvest, e ogni tanto di Ocse, G7, Consiglio europeo, vertici Nato, conferenze internazionali e altro ancora. Presidente di tutto ma non della Repubblica italiana. Una casella vuota, una fortezza inespugnata. Un'istituzione che in qualche modo lo ha sempre respinto.

La storia dei rapporti di Berlusconi con il Quirinale, dal 1994 in poi, è infatti un lungo elenco di screzi, attriti, incomprensioni. E se con Mattarella e Ciampi il confronto è stato tutto sommato civile e quasi amichevole, con gli altri capi di Stato gli scontri erano quasi settimanali. Uno su tutti, Oscar Luigi Scalfaro: questione di carattere e di formazione, erano troppo diversi per poter andare d'accordo. Il muro di Scalfaro si alzò subito, nei giorni della formazione del governo, il primo del centrodestra che aveva appena vinto le elezioni. No a Cesare Previti alla Giustizia, «per senso etico quel nome qui non passa». E no a divagazioni e spinte eversive: in un memorandum preventivo che non si era mai visto prima, il presidente della Repubblica, preoccupato del programma, chiedeva all'incaricato di «garantire l'unita nazionale, la solidarietà sociale, la fedeltà alle alleanze internazionali». Silvio venne insomma messo sotto tutela. Riforma delle pensioni, Rai, fisco, magistratura: i famosi «paletti» del Colle hanno intralciato non poco l'attività dell'esecutivo, fino al sospiro di sollievo quirinalizio quando l'estate successiva, incalzato dagli avvisi di garanzia e abbandonato da Bossi, Berlusconi fu costretto a passare la mano al suo ministro dell'Economia, Lamberto Dini.

La seconda volta, nel 2001, il Cav di nuovo presidente del Consiglio si ritrovò a trattare con Carlo Azeglio Ciampi, che aveva pure votato. Un andamento altalenante. Nessuno scontro aperto, come ai tempi di Scalfaro: l'ex governatore della Banca d'Italia preferiva usare la moral suasion per mitigare, correggere preventivamente, indirizzare certi provvedimenti del governo giudicati troppo laceranti. Il Colle si preoccupava in particolare delle coperture finanziarie e della tenuta dei conti pubblici. Per un po' ha funzionato, almeno fino al dicembre del 2003, quando nelle felpate stanze il conflitto è esploso sulla legge Gasparri. «Presidente, se non la promulghi, la considererò un atto di guerra e qui dentro non mi vedrete più». E infatti per mesi Berlusconi si è tenuto al largo dal Quirinale, mentre i girotondini incitavano il capo di Stato a «resistere e non firmare» e Forza Italia lo accusava di «lasciarsi incantare dalle sirene della sinistra». Nel 2006 era ancora il centrosinistra ad avere le carte per scegliere il presidente. Massimo D'Alema sembrava lanciatissimo e pure il Cavaliere, che lo stimava per il suo garantismo, accarezzava l'idea. Ma al dunque decise per il no. Telefonò personalmente D'Alema. «Io vorrei, però i miei elettori non capirebbero». Il Pd ricambiò in qualche modo la cortesia indicando Giorgio Napolitano, moderato, istituzionale, migliorista. All'inizio tutto bene. Sulla giustizia ad esempio, il nuovo capo dello Stato aveva delle sensibilità simili e infatti non perdeva occasione per bacchettare il Csm e i pm protagonisti. Poi le due forti personalità si sono fatalmente scontrate, con Napolitano che interpretava in maniera ampia i suoi poteri e Berlusconi che ricordava di essere «l'unica carica istituzionale eletta dal popolo». Dissidi anche sulla Libia, con il Colle che obbligò il presidente del Consiglio, che aveva da poco ospitato a Roma con gran pompa il Colonnello, ad appoggiare l'azione Francia-Usa che detronizzo Gheddafi. Ma alla fine del mandato, di fronte alla paralisi del sistema, anche Berlusconi andò a pregare Napolitano di restare ancora.

Quanto a Sergio Mattarella, il Cav subì la sua elezione, che arrivò insieme alla rottura del patto del Nazareno con Matteo Renzi. Era considerato uno Scalfaro due, invece sono andati d'accordo.

«È stato un grande leader che ha segnato la storia della Repubblica», questo l'omaggio del presidente.

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