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Censure e odio: Facebook e Twitter alla sbarra

Dorsey e Zuckerberg in Senato. Il primo ammette l'errore sul caso del figlio di Biden

Censure e odio: Facebook e Twitter alla sbarra

Mark Zuckerberg e Jack Dorsey tornano davanti al Congresso per rispondere di come le loro piattaforme hanno gestito l'informazione nel periodo delle elezioni. I ceo di Facebook e Twitter sono comparsi in formato virtuale a un'audizione presso la Commissione Giustizia del Senato dopo che loro società sono state accusate dai repubblicani di essere faziose a danno dei conservatori, e dai democratici di non fare abbastanza per combattere l'odio online e le fake news. Al centro dell'attenzione c'è in primis la storia sulle email del figlio di Joe Biden, Hunter, riguardo i suoi affari in Ucraina e Cina. Dorsey ha ammesso che è stato un errore bloccare la condivisione dell'articolo del New York Post sui presunti affari illeciti di Hunter. «Sì lo riconosco, ce ne siamo resi conto e in 24 ore abbiamo rimosso il blocco», ha detto, pur ribadendo che il tweet del tabloid violava i termini di servizio della piattaforma sulla condivisione di materiale riservato e che tale regola era stata stabilita sulla base delle indicazioni ricevute dall'amministrazione a proposito della lotta alla disinformazione di origine straniera mirata a influenzare le elezioni. Quindi, ha spiegato che Twitter fra il 27 ottobre e l'11 novembre ha segnalato circa 300mila messaggi nell'ambito del contrasto alla disinformazione, ossia lo 0,2% di quelli legati in quei giorni a Usa 2020.

Zuckerberg, da parte sua, ha difeso lo sforzo di Facebook per contrastare la disinformazione sul web: «Abbiamo preso seriamente la nostra responsabilità di proteggere l'integrità di questa elezione, seguendo le politiche e le procedure che avevamo preparato, e lavorando duro per applicarle in maniera equa e coerente». «Assicurare l'integrità delle elezioni è una sfida continua e siamo impegnanti a continuare a migliorare i nostri sistemi, ma siamo fieri del lavoro che abbiamo fatto negli scorsi quattro anni per prevenire interferenze e sostenere la nostra democrazia», ha aggiunto.

Il numero uno di Facebook ha evitato di rispondere direttamente alle domande sul perché non abbia cancellato i post nei quali Trump si attribuiva la vittoria: «Abbiamo intrapreso iniziative molto significative nel campo della lotta alla disinformazione, mostriamo informazioni aggiuntive sulle elezioni e siamo andati piuttosto lontano nell'aiutare a distribuire informazioni corrette sul voto», si è limitato a spiegare. Per quanto riguarda invece il caso dell'ex capo stratega della Casa Bianca Steve Bannon e del suo messaggio nel quale invitava alla decapitazione del virologo Anthony Fauci e del direttore dell'Fbi, Christopher Wray, ha spiegato che non poteva impegnarsi a bandirlo dal social network. «Non lo abbiamo fatto perché servono diverse violazioni per essere banditi - ha affermato - l'esclusione automatica del profilo scatta per i contenuti sul terrorismo o lo sfruttamento dei minori».

Intanto, Biden sta continuando a lavorare alla sua squadra di governo, dopo la scelta di Ron Klain come capo di gabinetto. Le nuove nomine sono figure molto legate all'ex vice presidente, che hanno contribuito in maniera determinante al successo della sua campagna elettorale: come Jen O'Malley Dillon, manager della campagna, che sarà vice chief of staff, mentre Mike Donilon sarà consigliere politico. Steve Ricchetti, ex presidente della campagna ed ex chief of staff di Biden quando era vice presidente (nonché consigliere della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton e di Barack Obama), sarà consulente legale del presidente. Sul fronte della battaglia legale di Trump, invece, in Georgia, dove è in corso il riconteggio, il segretario di stato Brad Raffensperger ha detto che il senatore repubblicano Lindsey Graham, fedelissimo del tycoon e sostenitore della teoria dei brogli, avrebbe lasciato intendere che doveva buttare pacchi di voti inviati (regolarmente?) per posta in alcune contee dove era più elevato il tasso di errori sulla regolarità delle firme.

In modo da ribaltare il risultato in favore dell'attuale inquilino della Casa Bianca.

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