Il cercatore di whisky che fa parlare le bottiglie

Giorgio D'Ambrosio da 50 anni seleziona e colleziona scotch. In cantina ne ha migliaia. Ognuno con una storia

Il cercatore di whisky che fa parlare le bottiglie

«Bottiglie in estinzione». La scritta - a pennarello, come tutte in questa cantina scampata all'era digitale - sta su uno scaffale come un monito ai bracconieri in una riserva di panda. «Glielo devo scrivere, altrimenti qui mi vendono tutto eh!». Son fatti così, i dipendenti. Pensano di lavorare in un bar come tanti. Ma questa non è una cantina, è un museo coi suoi gioielli e una chiesa con la sua acqua(vite) santa; è un'antologia di aneddoti e la biografia romanzesca di un signore vecchio stampo che è una leggenda riluttante: Giorgio D'Ambrosio, un uomo chiamato whisky.

Nel traffico di piazza De Angeli il Bar Metro sta in disparte come un monumento a una Milano da bere fatta di noccioline, tavole fredde e aperitivi senza musica alta. Non si direbbe, ma dietro i neon e il bancone («rifatto nell'85!») si nasconde il tempio dello Scotch. Senza teste di cervo impagliate o tovaglie di tartan, che spesso mascherano solo scarsa competenza. Da qui Giorgio negli ultimi 51 anni si è mosso solo per andare in Scozia ad annusar barili, ma ha conquistato l'Italia e il mondo. Come? Selezionando, imbottigliando, collezionando e vendendo single malt. E raccontando le loro storie.

Di bottiglie ne ha avute fino a 13mila, roba da Guinness, tutte in questa cantina dove accoglie gli amici se ha tempo e voglia. I suoi «apostoli» Andrea e Giuseppe, che hanno seguito le sue orme e fondato il Milano Whisky Festival, ricordano che ogni tanto, mentre riordinava, una bottiglia gli restava in mano: «Vuoi fare un affare?», e te la vendeva di punto in bianco, perché non c'era spazio. La loro collezione è nata così. Quella di Giorgio invece è passata di mano qualche anno fa, venduta a Max Righi. Ma tremila - le chicche, i pezzi di cuore - sono ancora qui, a testimoniare mezzo secolo trascorso a imparare e a trasmettere lo spirito del popolo scozzese, «che fa invidia per quanto adora la sua terra».

Non parla volentieri di sé, il sciur D'Ambrosio. Lascia indizi qui e là, da collezionare appunto. Ti racconta della sua amicizia con Jim McEwan, ex distillery manager di Bowmore e Bruichladdich: «Mi parli no ingles, lü el parla no italian. Ma quando è venuto a trovarmi ha annullato il volo di ritorno e siamo stati in cantina tutto il giorno. Ci siamo capiti».

C'è una foto di Rivera in un angolo, lui borbotta che li conosceva tutti, quelli di quel Milan. Altri tempi, di rapporti veri e non social. Andava a Milanello, parlava a Rocco, Rosato e Schnellinger («l'unico che metteva soggezione») e a quelli dell'Inter. Poi si ferma e mostra i suoi rhum vieux Courcelles... «L'altro giorno è arrivato un cinese e mi fa: Il Laphroaig Triple wood è banale. Banale? Questa è la bottiglia per il Whisky Live di Madrid. Allora poi voleva comprarla, ma... nisba!».

Perché la magia delle bottiglie è sottile, bisogna saperla riconoscere. Certo, c'è la vetrina dei Macallan, una galleria degli Uffizi liquida: bottiglie dell'Ottocento, annate rarissime. Ci sono il Mortlach 70 anni («il più vecchio al mondo», in sole 54 bottiglie), i ricercatissimi Karuizawa giapponesi, l'Ichiro's malt «The Joker» della serie delle carte da gioco, i single malt selezionati da Samaroli - altro pioniere del whisky in Italia. Preziosi a prima vista. Però sono le perle nascoste le migliori, quelle che Giorgio tira fuori quando fai domande personali.

Come e quando ha iniziato a collezionarle è un ricordo gelosamente custodito in una coltre di fumo di torba. Lui il barista non lo voleva fare, i bar li allestiva e basta. Poi, per aiutare un amico a cui un creditore aveva fatto una brutta scena, finì prima dietro al bancone, poi proprietario: «E dato che non mi è mai piaciuto arrivare secondo, neanche in bici, ho cominciato a studiare tutto, caffè, acqua, cachaça e distillati... Quello lassù è il cognac che c'era sul Concorde: non c'è più il Concorde, ma il cognac sì...».

Gli archeologi fanno parlare i reperti, Giorgio le bottiglie. Perché il bar gli sarà pure capitato, ma le bottiglie le ha scelte e in questo ha scelto di essere il migliore. Alcune le ha riempite di persona con il marchio GDA o Bar Metro. Lo ha fatto così bene che gli hanno tributato edizioni personalizzate con il bancone del bar in etichetta e ha perfino una bottiglia che i giapponesi di Suntory hanno donato solo agli otto manager della filiale di Londra. E a lui, «il Maestro» che odia farsi chiamare così.

Perché nonostante l'autorevolezza, il basso profilo milanese vince su tutto. E quando qualcuno gli chiede se è stato lui a portare il whisky in Italia, Giorgio spiega che no, al massimo è stato fra i primi a far assaggiare i torbati che piacciono tanto oggi: «Un amico aveva ospiti a cena dei clienti scozzesi e voleva fare bella figura. Gli diedi un Glen Garioch del '71 e quando poi gli domandai se i suoi ospiti avessero apprezzato quello mi rispose che non gliel'aveva mica dato: Quando l'ho aperto puzzava troppo di fumo: era andato a male!. Me la sono ripresa e l'ho servita ai clienti abituali. Erano sotto choc, ma poi me l'han richiesto tutti, altro che puzza».

Due volte sole l'anima schiva di Giorgio fa capolino da dietro gli amatissimi Ardbeg per mostrarsi agli ospiti che si guardano in giro a bocca spalancata tra i Port Ellen e un Glen Mhor celebrativo «propri bùn». Una volta quando gli monta ancora il nervoso pensando a quel pistola che mise in dubbio l'unicità della sua bottiglia preferita, un Bowmore di 30 anni dedicato a Jim Clark e realizzato in un solo esemplare per il museo del pilota di F1.

E l'altra quando ripete che gli piange il cuore, ma prima o poi dovrà vendere anche le ultime tremila bambine, perché non sa a chi lasciarle, la figlia sta in Canada e il figlio fa il biologo: «Ha trovato la sua strada, è contento, fa ricerca sull'alimentazione. Ed è astemio. Ma vi ho già mostrato l'acqua radioattiva Lurisia? È qui da qualche parte...».

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