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Quello che i buonisti dimenticano: i militari muoiono pure per loro

I radical chic delirano ogni volta che un militare cade sul campo. Ma la loro libertà di parola è garantita dal sacrificio di quei giovani

Quello che i buonisti dimenticano: i militari muoiono pure per loro

C'è un punto in particolare che sembrano ignorare tutti questi pseudo pacifisti da strapazzo che ingrossano le file della sinistra giallorossa. E cioè che i soldati in missione all'estero, come anche tutti gli uomini e le donne in divisa, rischiano quotidianamente la propria vita per difendere anche la libertà di certi soggetti di dire nefandezze come quelle pronunciate ieri da padre Alex Zanotteli. In una intervista all'agenzia AdnKronos il missionario arcobaleno, che in passato ha dimostrato di tenere più all'ideologia cattocomunista che al magistero della Chiesa, se l'è presa con gli italiani morti il 12 novembre 203 a Nassiriya. "I militari vittime di quell'attentato non andrebbero definiti 'martiri'", ha detto accusando lo Stato italiano di essere lì, in Iraq, solo "per difendere con le armi il nostro petrolio". Parole di una violenza inaudita che vanno di pari passo con lo stillicidio che si consuma quotidianamente per screditare l'esercito e, più in generale, le forze dell'ordine.

A impressionare non sono soltanto le parole di padre Zanotelli. Certo, quelle infangano la memoria dei nostri caduti e aprono nuove ferite nei familiari che sedici anni fa hanno perso un caro nell'attentato rivendicato dai jihadisti di Al Qaeda. La loro violenza, però, va ben oltre questo brutale oltraggio. Mettono infatti in discussione l'impegno del nostro esercito che all'estero si impegna in prima persona a combattere, in Iraq come altrove, l'odio islamista e danno spazio anche a chi siede in parlamento per fare distinguo imbarazzanti. "Martiri? Non saprei...", ha detto per esempio il piddì Emanuele Fiano pur riconoscendo che "la lotta contro l'Isis è una lotta giusta". Nulla a che fare con l'ennesimo delirio del missionario che in passato aveva proposto di dare il premio Nobel a Carola Rackete dopo che questa aveva speronato i nostri militari per portare (illegalmente) un manipolo di clandestini nel porto di Lampedusa. In quei giorni la capitana della Sea Watch 3 era, infatti, diventata l'eroina di democratici e talebani dell'immigrazione perché si era opposta fisicamente alle leggi volute da Matteo Salvini.

Per anni i muri della nostre città sono stati imbrattati dagli antagonisti e dai violenti dei centri sociali con la scritta "10, 100, 1.000 Nassiriya". E ancora oggi nelle manifestazioni targate sinistra vengono scanditi slogan violenti contro le forze dell'ordine. È nel loro dna. Tant'è che non mancano di dimostrarlo ogni volta che c'è da prendere di mira un poliziotto o un carabiniere. È il caso, per esempio, di chef Rubio che, dopo la morte di due agenti a Trieste, si è fiondato su Twitter a scrivere che erano "impreparati". O quando Roberto Saviano, sempre sui social, ha definito la polizia come il "servizio d'ordine" di Salvini. O ancora: tutte le volte che il piddì propone di mettere sui caschi un numero identificativo o vuole usare il "reato di tortura" per incastrarli.

Eppure politici, gente dello spettacolo, radical chic e no global che sventolano in piazza e in parlamento le bandiere arcobaleno devono capire che la loro sicurezza è garantita dalle divise che mal sopportano o la loro libertà è permessa anche da quei soldati che, lontani dalle loro famiglie, combattono per garantirci un futuro tranquillo.

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