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Via dall'Afghanistan: così l'Italia ammaina l'ultima bandiera. Vent'anni di missione per portare la pace

Chiude la base di Herat, tornano a casa i nostri soldati. Il tricolore rientrerà nel nostro Paese il 28 giugno. Il saluto del ministro Guerini: "Il cammino verso la stabilità è ancora lungo. La comunità internazionale faccia la sua parte"

Via dall'Afghanistan: così l'Italia ammaina l'ultima bandiera. Vent'anni di missione per portare la pace

Vent'anni di Afghanistan in un soffio. È già l'ora di ripartire, con il bagaglio di 53 caduti, diversi feriti e una missione il cui bilancio parla di 2.290 progetti portati avanti, dal 2005 a oggi, con una spesa totale di 58 milioni 423.735 euro. Ma quella terra per l'Italia ha voluto dire molto di più, perché in due decenni i nostri militari sono riusciti a entrare nel cuore degli abitanti della terra degli aquiloni. Uno sforzo concentrato prima nel riportare la pace in un Paese martoriato dalla presenza talebana e terroristica, in seguito nel realizzare scuole (105), poliambulatori (44), ponti (3), chilometri di rete idrica e tante altre strutture utili alla popolazione. Un impegno proseguito con l'addestramento delle forze di sicurezza afghane. Ma che fine faranno tutti questi sforzi? Il prossimo 28 giugno il Tricolore tornerà a casa, in Italia. Ieri l'ammainabandiera, alla presenza del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, del Capo di Stato Maggiore della Difesa generale di squadra Enzo Vecciarelli e del comandante del Coi (Comando operativo di vertice interforze) generale Luciano Portolano, con gli occhi lucidi di chi l'Afghanistan lo ha vissuto davvero, tanti uomini e donne in divisa che in questi lunghi anni si sono succeduti tra Herat, Kabul e le «fob» (forward operating base, la base operativa avanzata) chiuse ormai da tempo.

Guerini ha rassicurato chiarendo che non lasceremo soli gli afghani: «Il cammino verso la stabilità è ancora lungo. I nemici della pacificazione cercheranno di rallentarlo. La comunità internazionale dovrà fare la sua parte per fare in modo che ciò non avvenga. Ritengo che dovremmo garantire continuità nell'addestramento delle forze di sicurezza afghane», ha concluso. Per proseguire: «La decisione di porre fine alla missione è discussa alla Nato con grande impegno e determinazione sapendo che ci confrontavamo con un quadro complesso. Credo il rientro dei militari debba essere accompagnato da un grande impegno che la Nato dovrà realizzare in questa fase di passaggio. L'impegnò è di carattere, politico, economico, internazionale».

Il comandante della Folgore, Beniamino Vergori, a capo del contingente italiano, ha chiarito che la strada intrapresa è quella «per un rientro veloce e organizzato. Ottimi risultati - ha concluso - si possono raggiungere quando dietro alle quinte ci sono uomini e donne che non si lamentano mai». Numerosi i mezzi impiegati, tra cui gli Ilyuahin 76 russi, grossi aerei da trasporto, ma anche mezzi dell'Aeronautica militare tra cui C-130 è Kc-767.

In piazza Italia, al centro della base di Herat, un tempo sede di Isaf e poi di Resolute Support, ma soprattutto del contingente italiano, il monumento ai caduti non ha più le lapidi coi nomi. Sono già in partenza per l'Italia anche quelle. Quello che resta di Camp Arena non è che qualche struttura con alti muri di cemento armato intorno. Entro fine mese l'ultimo aereo partirà alla volta della Patria. Mentre restano lì quei nomi impressi sulla sabbia fine come cipria: David, Francesco, Manuele, Michele, Tiziano e tutti gli altri. Rimane il ricordo di tutti coloro che questa terra l'hanno impressa dentro all'anima, e che hanno avuto la fortuna di portare a casa la pelle e la consapevolezza che, forse, non abbiamo fatto abbastanza. Come ha detto Vecciarelli, però, «l'Italia può essere orgogliosa dei propri militari. Se ne sono succeduti 50mila, qui, in questi anni».

Certo è che gli interpreti che hanno lavorato in base, almeno quelli, avranno l'opportunità di venire in Italia. Omit e Nader, due di loro, raccontano che in Italia vorrebbero «continuare a fare il lavoro che hanno svolto lì». L'operazione Aquila, come ha detto il ministro Guerini, servirà a portare in Italia 240 tra interpreti e le loro famiglie e 400 tra lavoratori di ditte e collaboratori e loro congiunti. Saranno integrati a cura del ministero dell'Interno. Se restassero a Herat sarebbero uccisi. Sulla Ring Road passano ancora motorette, uomini col pakol e donne col burka. Sembra tutto normale. Ma chissà che sarà tra pochi giorni.

Noi siamo già quasi a casa.

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