Contrordine, compagni gialloverdi: sulle aperture domenicali è tutto da rifare.
E dire che Gigino Di Maio, qualche giorno fa, era pure andato in pellegrinaggio in Vaticano, a bussare alle porte del segretario di Stato Parolin per offrirgli i negozi obbligatoriamente chiusi nel giorno del Signore in cambio di un occhio di riguardo per i Cinque Stelle. Un buco nell'acqua: sulla legge bandiera anti-liberalizzazioni la Lega ha fatto un rapido testacoda e ieri si è improvvisamente messa di traverso. Tutto da rifare, ha detto il relatore Andrea Dara, del Carroccio: «Abbiamo deciso di riaprire le audizioni sul ddl sulle aperture domenicali dei negozi per capire cosa ne pensano le associazioni di categoria, cominceremo a parlarne la settimana prossima».
In verità, cosa ne pensino le associazioni di categoria è già noto, visto che le audizioni vanno avanti da mesi: sono state già audite quaranta sigle, tutte o quasi contrarissime, e hanno ampiamente denunciato i rischi di una simile scelta ideologica, tanto più in tempi di recessione economica. Quantificando in svariate decine di migliaia i posti di lavoro che si perderebbero. «Se al governo venisse in mente di commissionare un'analisi costi-benefici sulle chiusure domenicali delle attività commerciali - purché non taroccata come quella sulla Tav - attacca la capogruppo di Forza Italia Maria Stella Gelmini - scoprirebbe che l'idea rischia di essere un colpo letale per la nostra economia. Imporre le chiusure è una scelta liberticida».
Ma ora si ricomincia tutto daccapo: «E' evidente che anche su questo tema la maggioranza è spaccata: da una parte la Lega che, dopo aver chiesto il divieto totale di apertura domenicale, ha capito che era una linea insostenibile. E dall'altra i Cinque Stelle che insistono sulla loro bandierina», spiega la capogruppo Pd in Commissione Sara Moretto, che segue il dossier. Quindi lo stop deciso ieri è «un modo per prendere tempo e provare a cercare un'intesa tra loro». Non sarà facile: da inizio legislatura, quello che si stava discutendo in commissione a Montecitorio, e che ieri è stato in pratica cestinato, era il quarto testo prodotto dalla maggioranza.
L'ennesimo rinvio di una materia di scontro interno, alla faccia del «contratto di governo», che farà slittare tutto a dopo le elezioni europee. Fino ad allora, leghisti e grillini si rimpalleranno la patata bollente in commissione.
Del resto, il testo che il relatore Dara aveva presentato giovedì, facendo un collage delle diverse proposte, era un tale pasticcio che persino in maggioranza si erano resi conto del rischio di produrre un caos: aperture concesse per la metà delle domeniche, 26 su 52, e deroghe per altri giorni di serrande alzate nelle festività nazionali, quattro su 12 (laiche e religiose). In tutto quindi si arrivava fino a 30 aperture extra. Ma la scelta delle date era demandata alle Regioni, i piccoli esercizi erano esclusi dagli obblighi, per gli altri erano previste possibili deroghe nei «centri storici» e nelle «zone turistiche», con criteri e stagioni diversi a seconda che fossero al mare, in montagna o al lago, in zone «di trekking» o «di passeggiata» , e a seconda del numero di abitanti dei comuni e della metratura del negozio. Un delirio che neanche i caschi blu dell'Onu avrebbero saputo tenere sotto controllo.
«Quel testo non è la Bibbia», arretra il leghista Dara. «Siamo aperti a qualsiasi miglioramento». E, per cavarsi di impaccio, ha accolto a braccia aperte la richiesta di riaprire la discussione arrivata dalle opposizioni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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