Il ciclone Donald chiama il nemico Joe. Il destino di una sfida tra grandi vecchi

I due leader vicini a un secondo round. I timori dei repubblicani: Trump che vince le primarie di partito, ma (ri)perde le presidenziali

Il ciclone Donald chiama il nemico Joe. Il destino di una sfida tra grandi vecchi

A leggere i numeri, il rematch tra Joe Biden e (molto probabilmente) Donald Trump è una replica che gli americani preferirebbero non vedere nel 2024. Eppure, sempre a leggere i numeri, sul telecomando della politica Usa non sembra esserci un tasto per un canale alternativo. Un sondaggio di Nbc News pubblicato domenica, prima del video col quale Biden ha annunciato la sua ricandidatura alla Casa Bianca, indica che il 70% degli elettori in generale e il 51% di quelli democratici non vuole di nuovo il suo nome sulla scheda elettorale. Lo stesso sondaggio rileva che 60% degli americani e circa un terzo dei repubblicani ne hanno avuto abbastanza del tycoon. Fotografia pressoché simile è stata scattata da un altro sondaggio dell'Associated Press, nel quale il 65% degli intervistati ha risposto di non volere nuovamente Trump candidato, rispetto al 56% che ha bocciato Biden, sul quale inevitabilmente pesa anche il fattore età: proprio i suoi attuali 80 anni, 82 in caso di rielezione, contano nel giudizio negativo dell'86% degli elettori Dem che gli chiedono di fare un passo indietro.

Eppure non sembra esserci alternativa ai due «grandi vecchi». Il presidente in carica, dopo i sondaggi disastrosi della scorsa estate, quando l'inflazione veleggiava quasi a doppia cifra e il prezzo della benzina aveva raggiunto i massimi storici, può ora contare su un'ottima ripresa economica (nonostante i rialzi dei tassi della Fed) e un mercato del lavoro mai così forte, con una disoccupazione saldamente al di sotto del 4% e i salari in ripresa rispetto all'inflazione. Sul fronte interno, Biden è stato abilissimo a sfruttare al meglio l'esile maggioranza di cui ha goduto al Congresso nei primi due anni di presidenza, per fare approvare importanti leggi di spesa che stanno veicolando centinaia di miliardi di dollari in nuove infrastrutture, produzioni strategiche come i semiconduttori, ed economia green. Tutti investimenti, specie nel midwest, fondamentali per la riconquista del voto working class, che gli torneranno utili, insieme al rafforzamento del welfare. «Finiamo il lavoro!», non a caso, è lo slogan col quale Biden ha lanciato la sua campagna. Il tutto condito da un continuo rilancio del «made in America», sia in chiave anti cinese che antieuropea (vedi l'Inflation Reduction Act), che gli è costato perfino l'appellativo di «populista» da parte della stampa liberal. Altro vantaggio per Biden è il non avere rivali e non doversi imbarcare in estenuanti primarie.

Sul fronte opposto, Trump non ha un record economico da rivendicare. La sua presa sugli elettori repubblicani dell'America profonda si basa ancora su un'identificazione fortissima, quindi sulla differenza pressoché antropologica con i Dem e sul mito del «Make America Great Again». Il tycoon, al netto dei suoi tanti guai giudiziari, rimane il front runner del Gop. Il governatore della Florida, Ron DeSantis, il rivale più pericoloso, anche se non ancora ufficialmente dichiarato, è indietro di 37 punti. Per ora, la «guerra culturale» in Florida su aborto, diritto alle armi e immigrazione, nello sforzo di superare Trump a destra, non sta pagando sul piano nazionale e rischia di alienargli il voto moderato. È proprio questo lo scenario più temuto dai repubblicani: un Trump trionfatore delle primarie, ma sconfitto alle presidenziali.

Biden lo sa bene e punta sulla contrapposizione tra «competenza» e «caos», tra «forza tranquilla», per citare Mitterand, ed estremismo violento. Nel video annuncio si alternano immagini di un'America uscita dalla pandemia più serena e composta a quelle dell'assalto a Capitol Hill.

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