Il capitalismo di Stato contro il capitalismo etico. E viceversa. La questione dei diritti umani violati in Cina approda sugli scaffali, quelli virtuali, delle aziende occidentali leader nel settore abbigliamento e scarpe, dalla svedese H&M all'americana Nike, dai colossi Adidas a Zara. La Lega della Gioventù comunista, costola del Partito comunista cinese, ha lanciato una campagna di boicottaggio via Weibeo (il social network cinese alla Twitter) per punire la decisione del colosso svedese, che si rifiuta di acquistare il cotone della provincia dello Xinjiang, «preoccupata della tutela dei diritti umani» degli uiguri, minoranza musulmana perseguitata dal regime cinese.
La guerra diplomatica, la guerra dei valori e la guerra economica con l'Occidente si combattono, oltre che a dosi di vaccini anti-Covid, anche a colpi di tute da ginnastica e tailleur da ufficio. Per questo, mentre dagli Stati Uniti Joe Biden invita l'Europa e l'alleanza atlantica a un'alleanza contro la Cina, la gioventù comunista si è mobilitata, per additare ai social la scelta anti-cinese di molte aziende occidentali. A cominciare da H&M, numero due al mondo dell'abbigliamento retail. Nel 2020 - ecco l'accusa lanciata via web dalla Lega, che su Wiebo ha 15 milioni di follower - l'azienda svedese aveva annunciato che avrebbe smesso di comprare cotone dallo Xinjiang, l'area in cui si produce l'84% del cotone cinese, che è il 22% del totale mondiale. La ragione? La riduzione in schiavitù degli uiguri, costretti ai lavori forzati nei campi o nelle industrie tessili, la cui violazione dei diritti umani è stata condannata quattro giorni fa, con le sanzioni anti-cinesi decise da Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito e Canada per la prima volta a trent'anni da piazza Tienanmen. «Il gruppo è profondamente preoccupato... per la discriminazione delle minoranze nello Xinjiang - recitava il post di H&M rilanciato con orrore dai giovani comunisti cinesi - Ciò significa che il cotone per la nostra produzione non verrà più acquistato da questa zona». Parole interpretate come una dichiarazione di guerra. Tanto che i prodotti H&M sono stati rimossi dalle principali piattaforme locali di e-commerce, da JD.com a Taobao passando per Pinduoduo. Stessa sorte toccata a Nike, primo marchio di abbigliamento sportivo al mondo, che si era fatta identici scrupoli. È la ritorsione per la politica di aziende che al business vogliono unire l'etica, fosse anche per questione di puro marketing, per inseguire la nuova sensibilità dei consumatori o per scelte geostrategiche. A giudicare dall'aria che tira su social e media cinesi, le prossime nella lista nera sono Adidas e Zara.
Che a Pechino non fosse andato giù il provvedimento concordato delle potenze occidentali Ue-Usa-Gb-Canada lo si era capito dalla ritorsione scattata subito dopo l'annuncio delle sanzioni il 22 marzo, con la Cina che ha ricambiato le misure ai danni di una dozzina fra deputati ed eurodeputati europei, ricercatori e istituzioni comunitarie come la Commissione per i diritti umani della Ue.
Non c'è mercato senza il controllo del partito, è la linea del capitalismo in salsa cinese. E Pechino si muove forte non solo del suo potere di produttore ma anche di consumatore. Per H&M, il «Dragone» è il quarto mercato più grande di riferimento, secondo solo agli Stati Uniti per punti vendita aperti, con 520 negozi contro i 593 degli Usa.
È un potere che può essere sfruttato anche in funzione geopolitica e la Cina lo sta facendo, anche grazie ad alcuni vip, tra cui l'attore Huang Xuan e il collega e cantante Wang Yibo, che hanno risposto alla chiamata alle armi annunciando la fine dei contratti di sponsorizzazione con H&M e Nike. «Diffamare e boicottare il cotone dello Xinjiang mentre si spera di fare soldi con la Cina? Non lo si può nemmeno sognare!». Parola di Gioventù comunista.
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