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Londra e la strage del 7/7: "Il rischio ora è più alto"

La città onora le 52 vittime. Ma trema per i nuovi jihadisti: 800 i foreign fighters inglesi

Londra e la strage del 7/7: "Il rischio ora è più alto"

«Forse non ha stroncato Londra ma di certo ha stroncato molti di noi». Emma Craig è la voce fuori dal coro. Mentre la capitale britannica ieri lanciava il suo messaggio ai terroristi - «non ci avete piegato» - Emma raccontava con la voce rotta il dramma di una ragazzina piombata improvvisamente nell'incubo del terrore islamista. Aveva 14 anni quando uno dei quattro kamikaze entrati in azione a Londra il 7 luglio del 2005, in attacchi simulatenei alla tube e su un autobus, si fece esplodere nella metropolitana di Aldgate. In tutto 56 morti, compresi i brandelli dei quattro uomini-bomba immolati alla causa della jihad. Londra ha ricordato le vittime dieci anni dopo: i trasporti pubblici fermi per un minuto, una liturgia alla Cattedrale di Saint Paul e la commemorazione al memoriale del 7/7 a Hyde Park, alla presenza del premier David Cameron, del sindaco Boris Johnson e del principe William. Nel mezzo le scene più toccanti: i sopravvissuti che incontrano gli eroi-salvatori. E la certezza che il ricordo di ieri è l'incubo di oggi.

Lo spiega bene Paul Dadge, il pompiere diventato simbolo della strage di Londra dopo quella foto che ha fatto il giro del mondo, in cui lui, camicia bianca e guanti blu, porta in salvo Davina Turrell, il viso irriconoscibile avvolto in una maschera bianca per tamponare le ustioni dell'esplosione. «Un altro attacco è solo questione di tempo - spiega - e la gente non deve solo preoccuparsi dei bagagli lasciati incustoditi (possibili bombe, ndr ) ma di chi vive nelle proprie comunità. E deve far presente le proprie preoccupazioni». Il messaggio è chiaro: ora si sa che il nemico è qui, fra gli inglesi. Perché il 7 luglio ha rappresentato uno spartiacque anche rispetto all'11 settembre: a colpire Londra nel 2005 furono infatti quattro cittadini britannici, immigrati di seconda generazione ma nati e cresciuti sul suolo inglese. «Il pericolo non è passato, anzi è destinato a intensificarsi nel prossimo futuro» ammette anche Tony Blair, che ieri era con la moglie Cherie alla commemorazione e che con la sua presenza ha ancora una volta scatenato le ire di chi lo accusa di aver attirato le attenzioni degli islamisti con la guerra in Irak.

In questi dieci anni molto è cambiato nel Regno Unito e nel resto del mondo. Dalle politiche di contrasto al terrorismo religioso, che hanno decapitato Al Qaida, al controllo dei flussi finanziari che nutrono l'integralismo. È cambiato l'approccio dei servizi segreti, che fino al 2005 puntavano a contrastare i vertici dell'organizzazione e che ora tengono sotto controllo anche «la rete», cioè i possibili e numerosi affiliati ma che tremano per le azioni dei pericolosissimi «lupi solitari», difficili da monitorare. Ma la minaccia invece che indebolirsi si è rafforzata. Oggi, più che dieci anni fa, la Gran Bretagna è nel mirino del terrorismo anche più degli Stati Uniti, come dimostra l'attentato sulla spiaggia di Sousse, in Tunisia, dove 30 delle 38 vittime erano inglesi. E poi ci sono i foreign fighters , cittadini britannici, in molti casi integrati e con un background culturale alle spalle, partiti per combattere contro il regime di Assad in Siria ma al fianco dello Stato islamico anche in Irak: sono 800 in tutto, più del numero complessivo dei militanti islamisti monitorati dai servizi segreti venti anni fa. Il ricordo di quel tragico 7 luglio «forse è sbiadito», spiega il vigile-eroe Dadge.

Ma la percezione del rischio - anche se arriva «da una piccola minoranza» come precisa il capo dell'MI5 - oggi è pane quotidiano per gli inglesi.

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