Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti

Putin è tornato potente. Dalle sanzioni agli attentati, così vogliono fargliela pagare

Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti

Chi incrocia le dita e intravvede nella strage di Pietroburgo e nei moti «anticorruzione» di Mosca l'equivalente della Rivoluzione di febbraio anticipatrice nel 1917 - di quella di ottobre farà meglio a disilludersi. Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni.

Aver arrestato lo scivolamento dell'Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l'influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un'intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest'ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell'intervento in Siria e dall'altra della battaglia mediatico propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l'ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un'America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump.

Immaginare un grande complotto anti russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un'evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all'indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.

Prendiamo gli Stati Uniti del dopo Obama. Qui la grande macchina d'intelligence e media si muove ancora lungo le linee guide definite negli ultimi due quadrienni presidenziali. In quelle «linee guida» vanno contestualizzate le dimostrazioni «anticorruzione» di Mosca guidate da Alexander Navalyn. Quelle dimostrazioni sono, probabilmente, la punta d'iceberg degli investimenti messi in campo dalla passata amministrazione per rinverdire il mito delle «rivoluzioni colorate» utilizzate a suo tempo per allentare il controllo russo sulle periferie dell'ex impero sovietico. Non a caso l'oppositore Navalny è stato per anni il referente del «National Endowment for Democracy», l'organizzazione finanziata dal Congresso Usa accusata di aver progettato sia le «rivoluzioni colorate» sia la «rivolta anti russa» in Ucraina. Accuse costate all'organizzazione la messa al bando dalla Russia fin dal luglio 2015. L'intervento in Siria, di cui le bombe di Pietroburgo sembrano il riflesso, non va visto semplicemente nel contesto della guerra al terrorismo condotta da Putin in Siria, ma in quello ben più ampio dello scontro con Turchia, Qatar e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente. Nel momento in cui Mosca si garantisce Damasco, tessera fondamentale del grande risiko, i jihadisti russi, forze d'elite della legione straniera islamista, vengono rimandati a casa per colpire Pietroburgo, ovvero la città natale del nemico Putin.

Ma se Pietroburgo e Mosca sono in questo inizio 2017 i contraccolpi più evidenti della guerra condotta in Siria e sull'instabile linea di faglia tra zone d'influenza russe e americane ancor più preoccupanti rischiano d'essere i contraccolpi delle battaglie condotte sul fronte economico. Su quel fronte zar Putin non ha soltanto disinnescato l'arma del prezzo del petrolio, usata per ridimensionare la potenza russa, ma si è addirittura imposto, come mediatore tra Iran e sauditi garantendo l'accordo per il rialzo dei prezzi del greggio.

E sul fronte asiatico dove aveva già moltiplicato gli scambi con Pechino è persino riuscito a metter la sordina al conflitto sulle isole Kurili siglando accordi per due miliardi e mezzo di dollari con un Giappone rimasto per oltre 70 anni partner ed alleato esclusivo degli Stati Uniti. Colpe venute al pettine in questo 2017 dove sono in molti a sognare l'arrivo di un vagone piombato con un novello Lenin pronto a far cadere lo sfrontato zar.

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