
Nei campus universitari americani ci sono codici etici rigorosissimi e guai a esporsi con una parola di troppo in ambito di Lgbt, body shaming e razzismo. Non si può dire altrettanto per l'antisemitismo. In quell'ambito tutto sembra concesso. O almeno, lo è stato fino al Trump bis. E non stiamo parlando di goliardate. Gli studenti (di Harvard, Columbia, Yale e Pennsylvania) sono arrivati a stampare manifesti con i paracadutisti di Hamas, «eroi dal cielo» che scendono a massacrare i giovani del Festival Nova che ballano. Su Tik Tok hanno divulgato la lettera di Obama dopo l'11 settembre inneggiando allo sterminio degli ebrei.
L'Adl (anti defamation league), organizzazione che lotta contro la discriminazione e il pregiudizio nei confronti degli ebrei, ha calcolato che nel 2024 nei campus universitari ci sono stati 1.700 episodi antisemiti, l'84% in più rispetto all'anno precedente. Un dato allarmante ma in linea con quanto accade fuori dalle università: 9.300 episodi di violenza antisemita in un anno, un'escalation dell'890% negli ultimi 10 anni.
Ma ora è tornato Trump. Che accusa la Columbia University di aver violato i diritti civili degli studenti ebrei «agendo con deliberata indifferenza» nei confronti di quello che definisce un antisemitismo dilagante nel campus. L'accusa è stata annunciata dal Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (HHS), segnando un nuovo colpo per l'università, già scossa dai tagli federali: 400 milioni di dollari decurtati per le manifestazioni pro Hamas.
La Columbia ha violato il Titolo VI del Civil Rights Act, che vieta ai beneficiari di finanziamenti federali di «discriminare in base alla razza, al colore della pelle o alla nazionalità». Quest'ultima categoria, come precisa il comunicato stampa, include «la discriminazione nei confronti di individui sulla base della loro identità o ascendenza israeliana o ebraica, reale o percepita». L'annuncio non prevede nuove sanzioni ma conferma la linea dura del tycoon contro quello che lui stesso ha definito «indottrinamento di sinistra». Qualcosa che in America si traduce in striscioni che inneggiano l'Intifada o che invocano «Palestina Libera», in scritte spray con slogan del tipo There is only one solution, Intifada revolution. Ma anche in azioni violente dettate dall'odio contro gli ebrei: oltre 150 le aggressioni fisiche negli Stati Uniti, 1.800 gli atti vandalici contro sinagoghe o centri comunitari, 1.200 gli incidenti nei campus. Cosa c'è alla base dell'accanimento (verbale e non)? «Negli Stati Uniti - spiega Linda Maizels, direttrice del Programma di Studi sull'Antisemitismo dell'Università di Yale - dilaga un paradigma secondo cui Israele viene percepito come uno Stato bianco, privilegiato e coloniale. E siccome gli ebrei vengono visti come privilegiati, c'è un forte astio nei loro confronti, che si accompagna ad una profonda ignoranza sulla storia dell'antisemitismo, che si manifesta nella decisione di non dare voce agli ebrei nei campus. Siccome sono visti come privilegiati, si dà per scontato che siano nel torto».
A soffiare sulle proteste studentesche è (anche negli Usa) la
sinistra radicale. Con tutti i suoi interessi e le sue clamorose contraddizioni. Una su tutte: a un recente corteo pro Lgbt organizzato a New York non sono stati ammessi gay e lesbiche ebree. Evidentemente pareva troppo.
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