Una sera d'inverno, sul finire degli anni Sessanta. Il palazzone della Rizzoli, all'estrema periferia di Milano, è ormai vuoto. O quasi, perchè qualcuno è ancora in ufficio. Angelo Rizzoli, ormai prossimo al traguardo degli ottant'anni, è chino sulle carte. A scuoterlo ci pensa il nipote, Nicola Carraro, che probabilmente non vede l'ora di tornare a casa. «Eh già, è ora d'andare, Nicolass...»,Il Commenda, come lo chiamano tutti, s'infila il lungo cappotto di cammello e si calca in testa l'inseparabile cappello floscio. Pare un monumento. Ma a dispetto dell'età, della fama della ricchezza accumulata, il vecchio imprenditore non ama stare sul piedistallo a lucidare le memorie. No, la sigaretta di mentolo all'angolo della bocca, precede il nipote nel corridoio spettrale per dedicarsi all'ultima operazione della giornata: «Avanzando con lentezza, spegne a una a una tutte le luci». E si lascia sfuggire poche parole che il nipote si porterà dentro per tutta la vita: «Si dimenticano sempre».
Un'immagine folgorante, quasi venata di malinconia, una delle tante che compongono questo libro avvincente e a suoi modo originale: Rizzoli, scritto a quattro mani dai nipoti Nicola Carraro, figlio di Pinuccia, e Alberto Rizzoli, secondogenito di Andrea e pubblicato, udite udite, dagli storici rivali di Mondadori ( ma a bilanciare l'eresia ci sarà oggi alle 18.30 la presentazione del volume alla libreria Rizzoli in Galleria). I due autori utilizzano con leggerezza e disinvoltura lo stile epistolare per scambiarsi divertite letterine che sono altrettanti capitoli. Dentro c'è la saga di una famiglia che ha riempito le cronache dal dopoguerra, ma c'è soprattutto lui, lo straordinario fondatore di un impero editoriale con la sua grandezza, il suo fiuto, i suoi tic, i suoi limiti. Il suo amore per la vita regale conquistato dal niente, la Mercedes con l'autista e il vetro divisorio, un panfilo tra i più grandi d'Europa, soprattutto le avventure con le belle donne. Anna, la moglie sapeva, taceva, semmai lo giustificava: «È così pieno di vita». Quando il figlio Andrea compra il Milan, lui si oscura in volto, come ci fosse un eclissi. In famiglia sono tutti preoccupati, perchè il Commenda ha l'ultima parola su tutto e il cielo minaccia una tempesta. Alla cena domenicale, davanti al canonico riso in brodo con fegatini, Angelo Rizzoli dice finalmente quel che pensa; «Sia ben chiaro, io sono contrario a questa operazione e non ci metterò una lira di tasca mia, ma se proprio ci tenete vi do il mio benestare, a patto che non togliate del tempo al lavoro in azienda e non facciate debiti con le banche». Punto. Andrea tira un sospiro di sollievo; può andare avanti e infatti la gestione Rizzoli porterà nel 1963 al trionfo in Coppa dei Campioni sul prato leggendario di Wembley.
Angelo Rizzoli è fatto così: si fida molto di se stesso, un po' meno degli altri. Ha scalato tutto lo scalabile, partendo, poverissimo, dall'orfanotrofio dei Martinitt. E ha sempre tenuto insieme, dentro una personalità complessa e affascinante, lo sguardo lungo, molto lungo dell'uomo di talento, anzi del sognatore, e il passo rapido e deciso dell'ex fanciullo abituato alla severa disciplina del collegio. Dunque, non ha atteso il domani a braccia conserte, ma gli è andato incontro, quasi tagliandogli la strada. «Sai, Albertin si confida con il nipotino quando ero bambino andavo con gi amici dell'orfanotrofio a vedere i signori che arrivavano in carrozza alla prima della Scala. C'era una gran folla, la piazza era stracolma di milanesi accorsi lì per ammirare quello spettacoli di carrozze bellissime, di gente importante, di mantelli e pellicce... Angiulin, mi dicevo allora io, un giorno anche tu starai su una di queste carrozze, sarai uno di questi signori con una bella dama al tuo fianco ed entrerai nel foyer della Scala per assistere alla prima».
Una vita che pare una favola. E per certi aspetti lo è, ma per fortuna, senza lo zucchero filato del buonismo. Anzi, il Commenda ci regala lampi di perfida, quasi cinica, ironia mentre progetta giornali, assolda Fellini, dialoga con Montanelli, diventa amico di Alberto Sordi. Montanelli, che già accarezza l'idea di fondare il Giornale , va spesso a cena, nel palazzo di via Gesù, e cerca di convincerlo ad aprire il portafoglio. Ma il Commenda si tira indietro. E a Nicola, oggi marito di Mara Venier, spiega con una risposta che è una fucilata le ragioni della sua ritrosia: «Quando il direttore di un quotidiano è più importante e famoso della testata che dirige non c'è più spazio per un editore professionista». Montanelli dovrà cercare altre strade. Lui invece resta sempre fedele alla dea Fortuna, che gli aveva dato una mano all'inizio di tutto quando con i soldi dei Martinitt aveva comprato una macchina da stampa e la pedalina, legata con le corde a un carretto, era stata sul punto di cadere in strada e di sfasciarsi.
Sarebbe stata la fine di tutto, ancor prima di cominciare. La fortuna l'aveva salvato. «Il mio sospetto scriverà Oriana Fallaci sull' Europeo è che non giocasse per vincere, bensì per perdere e pagare il suo debito alla fortuna».
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