il commento 2

E poi ci sarebbe il cibo. Quella roba che ci tiene in vita ma che nel mondo è distribuita un po' così, tanta pochi e poca per tanti e anche per questo bisogna parlarne, perché la media tra un obeso del Wisconsin e un affamato del Benin solo per la statistica fa due persone ben nutrite.

E poi ci sarebbe il cibo: la sua quantità, la sua salubrità, la sua sicurezza, la sua disponibilità, il suo impatto energetico.

E poi ci sarebbe l'obiettivo «fame zero» entro il 2030.

E poi ci sarebbe il contenuto che è stato messo in secondo piano dal contenitore.

E poi ci sarebbe da chiederci: che cosa resta dell'Expo quando si parla di concetti e non di architetture?

Resta la carta di Milano, che dovrebbe svolgere nell'alimentazione il ruolo che il Protocollo di Kyoto ha rivestito per l'ambiente. Sedici pagine - scaricabili da internet - con frasi solenni («Noi donne e uomini, cittadini di questo pianeta, sottoscriviamo questo documento per assumerci impegni precisi in relazione al diritto al cibo che riteniamo debba essere considerato un diritto umano fondamentale», recita l'attacco), e un elencone di proclami, buone intenzioni, impegni. Finora un milione e mezzo di persone lo hanno firmato. Ma firmare, si sa, costa solo una goccia di inchiostro della bic.

Restano i padiglioni nazionali. Chi ha affrontato il tema in modo didascalico (la Francia), chi in modo pedante (la Germania), chi ha messo cartelloni informativi sui datteri, chi ha portato i cavoli fermentati in vasi sepolti nel terreno. Chi ha proprio evitato il problema, sfruttando l'occasione e il non trascurabile investimento per farsi un po' di promozione come se fossimo alla Borsa del turismo ma con molta più gente da accalappiare. Siamo belli, siamo bravi, siamo moderni, venite a visitarci. Ah sì, facciamo anche da mangiare. In termini concettuali l'unico padiglione che ha centrato davvero l'obiettivo è quello svizzero. Una torretta di quattro piani piena zeppa di cibi in monoporzione che i visitatori potevano prendere a volontà consapevoli che se avessero esagerato avrebbero impedito agli altri di rifornirsi. Abbiamo visto gente riempirsi le tasche di sacchetti di mele e di bustine di caffè, poi ripensarci e lasciarne un po'.

Resta il padiglione Zero, bello e affollato, anche se molti si saranno messi in fila perché convinti che fosse senza zuccheto.

Restano i ristorantini dei vari padiglioni, alcuni buoni, quasi tutti cari, spesso in mezzo al percorso espositivo come i prosciutti e i cantuccini negli autogrill, che devi passarci davanti e poi magari li compri pure.

Restano le patatine belghe, tra i pochi cibi low cost , fritte e servite da persone che non crediamo siano mai state a Bruxelles. Però che buone.

Resta la sfilata dei grandi chef. Non c'è uno stellato (e se c'è ci scriva) che non abbia avuto il suo show cooking , la sua ospitata, la sua cena a tema, la sua ribalta, il suo premio. Hollyfood è uno star system che ha le sue regole. Se non ci sei non esisti.

Resta l'idea di Massimo Bottura, lo chef «perfetto» secondo le guide, che ha convinto molti suoi colleghi a cucinare per i poveri del Refettorio Ambrosiano trasformando in piatti di alta cucina gli

scarti che sarebbero finiti nei retrobottega del decumano. Al netto di un po' di retorica (Bottura è un maledetto poeta, ma quanto ci sa fare con le padelle e le parole) un esercizio di buona pratica. E di buon appetito.

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