La Consulta: sì allo stop dell'abuso d'ufficio

"Non è incostituzionale". La soddisfazione di Nordio: "Basta con le strumentalizzazioni"

La Consulta: sì allo stop dell'abuso d'ufficio
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Schiaffo della Corte Costituzionale alle toghe che da tredici tribunali italiani, raccogliendo l'indignazione dell'Associazione nazionale magistrati, chiedevano che tornasse in vigore il reato di abuso d'ufficio, cancellato dal governo Meloni. Ieri i ricorsi vengono respinti in blocco dalla Corte: non esiste alcuna norma europea che obblighi l'Italia a mantenere nel suo codice un reato quale l'abuso d'ufficio. Un reato tanto fumoso quanto elastico, divenuto nel corso degli anni l'incubo di amministratori pubblici di ogni partito, che venivano incriminati dalle Procure quando altro le Procure non riuscivano ad escogitare, e venivano poi assolti quasi in massa: ma intanto i Comuni erano stati paralizzati e le carriere rovinate.

L'abrogazione del reato faceva parte del programma elettorale del centrodestra, ed è stata varata dal Parlamento nell'agosto dello scorso anno. L'insurrezione delle toghe organizzate era stata immediata, il presidente dell'epoca dell'Anm, Giorgio Santalucia, aveva definito la legge una «amnistia per i colletti bianchi», e il suo appello era stato raccolto da un capo all'altro della penisola, con tredici tribunali che invece di applicare la legge e assolvere l'imputato di abuso che gli si trovava davanti avevano presentato ricorso alla Corte Costituzionale per chiedere di ripristinare la norma appena soppressa. Il top si era raggiunto nel febbraio scorso, quando anche la Cassazione era scesa in campo per risuscitare il reato di abuso. La sesta sezione presieduta da Giorgio Fidelbo accusò il Parlamento di avere, abolendo l'abuso d'ufficio, «sacrificato integralmente la tutela dei cittadini contro gli abusi posti in essere ai loro danni» dai pubblici amministratori». Per chiedere alla Consulta di abrogare l'abrogazione la Cassazione si appellava alla convenzione internazionale contro la corruzione siglata dalla conferenza dell'Onu a Merida nel 2003, glissando sul fatto che quasi in nessun paese europeo è previsto un reato vago come l'abuso d'ufficio. Particolarmente interessante era il ragionamento seguito per aggirare il dato di fatto che vedeva prosciolti oltre il 90 per cento dei politici indagati per abuso: per la Cassazione la vecchia norma aveva comunque una «portata estremamente efficace», «in ragione della previsione della minaccia della sanzione penale». Un reato-spauracchio, insomma.

Ieri la Corte Costituzionale respinge in blocco i ricorsi. L'abuso d'ufficio non tornerà nel codice. Le motivazioni verranno pubblicate nelle prossime settimane, ma il punto chiave è indicato già nel comunicato: «dalla Convenzione di Merida non è ricavabile né l'obbligo di prevedere il reato di abuso d'ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell'ordinamento nazionale». Una bocciatura secca, come si vede. Che raccoglie la soddisfazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio: «Esprimo la massima soddisfazione per il contenuto del provvedimento della Corte costituzionale, che ha confermato quanto sostenuto a più riprese in ordine alla compatibilità dell'abrogazione del reato di abuso di ufficio con gli obblighi internazionali. Mi rammarica che parti della magistratura e delle opposizioni abbiano insinuato una volontà politica di opporsi agli obblighi derivanti dalla convenzione di Merida. Auspico che nel futuro cessino queste strumentalizzazioni, che non giovano all'immagine del nostro Paese».

E il viceministro Francesco Paolo Sisto: «Per troppi anni la paura della firma ha paralizzato la mano dei decisori pubblici, bloccando scelte e decisioni. Senza dimenticare - ricorda Sisto - che il nostro bagaglio legislativo contiene in sé numerose armi per contrastare la corruzione».

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