Le "consultazioni" di Di Maio: solo telefonate brevi e ovvie

Il grillino pubblica il resoconto dei contatti coi leader L'unica intesa è con Salvini: far partire il Parlamento

Le "consultazioni" di Di Maio: solo telefonate brevi e ovvie

E il settimo giorno il Signore si riposò.

Non così Luigi Di Maio, impegnato alla rivendicazione di un ruolo prima che la cosa sfugga agli italiani o finisca nel dimenticatoio: leader del primo partito del Paese, premier incaricato «in pectore». Peccato che nessuna delle due parti in commedia sia vera, se non in percentuali infinitesimali. Ma il giovane capo politico dei Cinquestelle è come il testimone di Geova che bussa al citofono la domenica: tanta buona volontà, assai poco da offrire. Le sue personali consultazioni domenicali, telefonate che vanno da un minimo di 7 minuti (Meloni) fino a un massimo di 12 (Grasso) assurgono perciò a parodia di quanto servirebbe in momenti delicati come questo. Fiera delle ovvietà, puntualmente riportate come parola del signore sul blog dei Cinquestelle. «Nella giornata di oggi ho sentito telefonicamente i principali esponenti... voglio che tutto avvenga nella massima trasparenza... Ho sentito Martina, Brunetta, Meloni, Grasso e ho riscontrato disponibilità a proseguire il confronto... utile a individuare profili all'altezza del ruolo, non solo per le presidenze di Camera e Senato, ma anche per le altre figure che andranno a comporre gli uffici di Presidenza». Impressioni ricevute dagli interlocutori telefonici citati: «Telefonata cordiale, nulla di nuovo, simpatico giovanotto, non ha alcuno schema in mente». In parole povere, Di Maio fa solo fumo e non sa che pesci prendere.

Discorso a parte, però, merita l'ultima delle telefonate, quella con il leghista Salvini. Era la seconda volta che i due si consultavano formalmente, e sospettosi l'uno dell'altro (tanto che subito dopo la telefonata, entrambi corrono a postarne il resoconto sul social preferito). «Ho il telefono acceso, magari dopo la partita chiamerà», era la spasmodica attesa di Salvini. Che, durante l'intervallo di Milano-Chievo (!), poteva finalmente concordare con Di Maio un punto cardine (almeno per entrambi): far partire la legislatura quanto prima. Escludere uno stallo prolungato che torni a far balenare lo spettro delle elezioni. Esito che, al contrario di quanto si diceva, i due maggiori partiti cominciano a temere fortemente, perché la dimostrazione di totale inconcludenza non è mai una buona propaganda per fare il pieno di voti (come ha capito Salvini, ancor prima di Di Maio). Nella ricostruzione di entrambi, si intravvedono perciò almeno tre indizi del comune sentire di questi giorni. «Con Salvini, pur non affrontando la questione nomi e ruoli, abbiamo convenuto sulla necessità di far partire il Parlamento quanto prima», scrive il popolare Giggino, riservando al leghista un trattamento di favore (almeno nella considerazione).

«Non abbiamo parlato di governo, ma di presidenze delle Camere», conferma il turbolento Matteo. Però è sotto gli occhi di tutti che i due «vincitori» delle elezioni sentono su di sé la responsabilità di far partire urgentemente la legislatura, spartirsi magari le due Camere (molti sospettano che il patto già ci sia) per poi procedere a un abbozzo di governo di formula «spuria», così almeno da poter dire, un domani davanti a nuove elezioni, d'averci provato e chiedere maggior forza agli italiani. Non sembra ancora essere maturata, questa reciproca consapevolezza, ma i passi dei due inesperti leader indicano una certa, comune voglia di giocare con il fuoco.

Anche perché, se Di Maio ha da temere soltanto la reazione interna al Movimento, dove quasi la metà dei simpatizzanti si sente più vicina alla sinistra, per il leader leghista abbandonare la coalizione di centrodestra vincente sarebbe un salto nel vuoto. Una scommessa azzardata senza avere in mano neppure il punto. Forse troppo, per pensare che Salvini alla fine decida davvero di provarci.

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