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Conte cambia idea sullo scudo. Ma ormai il danno è fatto

Il premier: «Immunità già sul tavolo». Però pensa pure alla nazionalizzazione. E Di Maio attacca Salvini

Conte cambia idea sullo scudo. Ma ormai il danno è fatto

Da una parte il tremebondo premier Conte, paralizzato dalla paura di saltare, che implora «unità» del «sistema paese» e ventila inquietanti ipotesi di «nazionalizzazione» di Ilva, a carico dei contribuenti. Assicurando che «lo scudo penale non è un problema» e il governo «compatto» lo ha già «messo sul tavolo».

Dall'altra Di Maio che polemizza con Salvini straparlando di «sovranismo» e accusandolo di essere un «cameriere delle multinazionali», con toni già da campagna elettorale che ricordano i proclami delle Br. «Di Maio è imbarazzante, dia piuttosto risposte ai lavoratori», replica Salvini

In mezzo un Pd impotente che cerca a tentoni una via di uscita dal disastro, mentre il centrodestra esulta e infierisce. La bomba Ilva, già innescata dal precedente governo grillo-leghista con il cosiddetto dl Imprese che toglieva lo «scudo penale» ai manager dell'acciaieria, è esplosa in mano all'attuale esecutivo grazie al famigerato «emendamento Lezzi», dopo il quale Arcelor Mittal ha annunciato il disimpegno. E ora, palesemente, nessuno nel governo sa cosa fare. Il Pd tenta di far ripristinare lo «scudo» via decreto, condizione essenziale per riaprire la trattativa con Arcelor. Ma M5s si oppone: «Se insistete ci alziamo e ce ne andiamo», ha minacciato Di Maio nel Consiglio dei ministri di mercoledì, quando i ministri dem hanno proposto il testo del decreto. Conte non ha il coraggio di forzare la mano ai grillini, nella convinzione che i gruppi parlamentari si spaccherebbero, e il suo governo cadrebbe.

L'unica strategia rimasta sembra quella di demonizzare Arcelor Mittal e provare a lasciargli il cerino, sostenendo - come fa Conte - che la richiesta di ripristinare lo scudo o di tenere aperto l'altoforno che la magistratura pretende di chiudere siano solo «alibi», e non condizioni minime per proseguire l'investimento. Su questa linea è il ministro dello Sviluppo economico Patuanelli, che ieri in una sconclusionata informativa in Parlamento, tra i tumulti dell'opposizione che issava cartelli, ha tuonato: «Non consentiremo che ci sia una multinazionale che lascia le cambiali a questo Paese, questa è questione di sovranità nazionale. Serve un gesto di responsabilità di tutte le forze politiche e sociali». Quale, non si sa. Se non, appunto, mettere mano al portafoglio dei contribuenti e trasformare Ilva in una gigantesca Alitalia, come fa capire Di Maio invocando niente meno che Orban che «in Ungheria combatte le multinazionali nazionalizzando anche le banche». Anche Roberto Fico si accoda: «Lo Stato deve andarci giù duro», e Pantalone deve pagare.

Così Conte, dopo una giornata affannosa e una salita al Colle per riferire del caso ad un Mattarella, si dice, sempre più perplesso sulle mosse del governo, a sera incontra le parti sociali e annuncia che se Arcelor Mittal lascerà «il primo step sarà la gestione commissariale al Mise». Ossia nelle capaci mani di Patuanelli, degno successore di Gigino. Il decreto reclamato dal Pd sfuma nel nulla, così come le intenzioni bellicose del segretario dem Zingaretti, che un giorno fa diceva esasperato: «Questo governo è finito, non è in grado di fare nulla di buono». Meglio staccargli la spina, rompendo con M5s su una questione enorme come Ilva.

Ma nel Pd, pervaso dal terrore del voto, non sono molti a seguirlo, e ieri Zingaretti assicurava: «Nessuno strappo dal Pd».

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