Contenere l'aumento della temperatura a 1,5 gradi e tagliare le emissioni del 45% entro il 2030. Su questo aspetto sono tutti d'accordo, per il resto le divisioni sembrano incolmabili. Non sono quindi bastati i tempi regolamentari, la Cop26 di Glasgow si appella ai supplementari per trovare un accordo che, almeno per ora, è costruito attorno alle promesse, ma non edificato su una rivoluzione concreta. I 200 stati coinvolti nell'arrivare a intese all'altezza della sfida posta dal climate change si rivedranno anche oggi, e forse addirittura domani. La prima bozza d'accordo, circolata mercoledì, è stata sostituita da una seconda, ma non è da escludere che entro la fine del week end ne verrà redatta una terza.
Mettendo un po' d'ordine tra documenti, fogli volanti e veline, non ci sono i crismi per stappare una bottiglia di champagne. Anzi, a dirla tutta si ha la netta impressione che le ingerenze di alcune nazioni sull'Onu (rivelate a ottobre da un pool di giornalisti scientifici di GreenPace), per «correggere» il rapporto scientifico sul clima, abbiano giocato un ruolo importante e avuto più potere del buon senso.
È sufficiente analizzare la questione della de-carbonizzazione: resta l'invito all'aggiornamento urgente per quei Paesi che non lo hanno ancora fatto, ma sparisce la previsione di un'ulteriore revisione entro la fine del 2022, che era presente nella prima bozza. Nella dichiarazione congiunta con gli Usa, la Cina si impegna a ridurre il consumo del carbone a partire dal 2026. Nel frattempo, la sua fame di energia la spinge a bruciarne di più. È sparito l'invito ad attivare entro il 2023 il fondo da 100 miliardi di dollari all'anno per i paesi più poveri. Il documento aggiornato si limita a spiegare che se ne parlerà (forse) nel 2025.
Nella bozza compilata ieri viene confermato l'obiettivo di puntare a rimanere sotto 1,5 gradi di riscaldamento globale dai livelli pre-industriali, a tagliare le emissioni di anidride carbonica del 45% nel 2030, e ad arrivare a zero emissioni nette di Co2 intorno alla metà del secolo. Anche questa è una data indicativa che si presta purtroppo a mille interpretazioni. Confermata da un gruppo di Paesi l'adesione alla Beyond Oil and Gas Initiative (Boga), che prevede lo stop alle licenze e concessioni per nuove esplorazioni di giacimenti di petrolio e gas. L'iniziativa è promossa da Costa Rica e Danimarca. Nessun grande produttore di petrolio, a partire dalla Gran Bretagna, l'ha sottoscritta.
È emersa una spaccatura importante, soprattutto in chiave europea, sul nucleare, con Parigi e Berlino posizionate agli antipodi. Macron ha annunciato la costruzione di nuovi reattori e la Francia guida il fronte dei Paesi per un nucleare votato al verde. Austria, Danimarca, Germania, Lussemburgo e Portogallo hanno sottoscritto una dichiarazione in senso contrario. Il ministro per l'ambiente di Berlino, Svenja Schulze, è stata categorica a margine dei lavori in Scozia. «È impossibile considerare il nucleare una soluzione alla crisi climatica. Includerlo nelle fonti verdi significa sottrarre investimenti alle energie rinnovabili».
Scetticismo sul summit emerge dalle parole rilasciate alla Bbc dall'economista Nicholas Stern, tra i primi a denunciare (nel 2006) il global warming.
«La bozza ha punti di forza, ma non è ancora all'altezza di garantire il contenimento delle temperature del pianeta entro il tetto di 1,5 gradi in più». Il vicepresidente dell'Ue Frans Timmermans ha dichiarato: «Se falliremo, mio nipote di un anno combatterà con altri esseri umani per acqua e cibo. Questa è la cruda realtà».
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